Sulle tracce delle pozzanghere: “La Pòlis che non c’è” di Ennio Abate

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Calo l’asso in prima mano: La Pòlis che non c’è (CFR, 2013) di Ennio Abate, Premio Franco Fortini 2012 per la poesia politica e civile, è con ogni probabilità un libro “necessario”, come tutti quelli che riescono, oltretutto con notevole varietà di registro, a delineare un processo storico e persino a prevederne gli anni immediatamente successivi (2013-oggi), che del resto non stanno registrando altro che un’accelerazione delle tendenze.

Quasi basterebbe a dirlo tale tutta la pagina 13, con cui si conclude la Poesia lunga della crisi lunghissima, breviario di durata ultragenerazionale (1978-2012: 34 anni!) della sconfitta e resistance is futile, Cit.) della ormai necessaria, o meglio ineludibile, consapevolezza di un confinamento in “zona grigia”.
Per questo confinamento, spesso Abate conferisce ai suoi versi l’appellativo di poesia esodante: a mio avviso, più nel puro senso etimologico di “uscita” dalla scena, che nei suoi portati politico-giuridici previdenziali di trista attualità (vedi sotto). Lo stesso titolo della raccolta, come spiegato nella nota conclusiva, fa riferimento «alla perdita della speranza per ogni possibile noi politico» intravisto nell’accecante bagliore sessantottino.
Non si pensi però, nonostante la caduta della spes e qualche frammento lungo il libro, a una poesia arrendevole. L’esodo da ogni progettualità non è, come per le pensioni, transattivo: non vuole e non deve significare un ammorbidimento della coscienza scrivente. Oltretutto si tratta, a mio avviso e contra auctorem, di poesia politica, proprio per il suo cantare l’assenza della politica come progetto collettivo. Dunque di “autopsia della politica”, di fenomenologia negativa della stessa.
Esplicito poi il risentimento – sempre nella nota finale – contro coloro i quali hanno imposto «l’inchino ai dominatori»; non enumerati, ma ben individuabili durante la lettura. Il che, unitamente a quanto si legge su Poeti Intellettuali e Lettori, dà ben poco – vivaddio! – il senso di “scendere a reciproche concessioni”, di acquiescenza, e restituisce piuttosto un sentore di satira schietta, vigile, feroce e amara. Sentore acuito dalle frequenti tirate ad personam, per intellettuali e riviste di sinistra («Il Manifesto europeizzato», oppure L’Unità del 2011, «organo plaudente del PD»; che scriverebbe Abate oggi?) – troppe per essere riportate per intero.
In sintesi, lo spirito del libro mi sembra quello espresso dal punto 1 del manifesto (versione 2015, archiviato qui) della rivista/sito di cui Abate è redattore, Poliscritture.it: pur memore della sconfitta delle esperienze di emancipazione o rivoluzione del Novecento e del fallimento delle dissidenze nei paesi del fu «socialismo reale», non rinuncia a costruire samizdat di critica elementare contro le menzogne dei potenti, anche quelle travestite da «senso comune».

In questo spirito, comunque la si voglia definire, la poesia di Abate, oscillando tra registri rasoterra e molto alti, è potente e precisa nel cogliere alcune declinazioni dei nostri tempi. Sin dalle reazioni al rapimento di Moro, 17 Marzo 1978 (p. 19):

noi zitti in piazza/ mentre De Carlini vaneggia/ infilando in trinità/ Matteotti Togliatti e Moro/ di fronte alle truppe gongolanti dei ciellini/ non una virgola in più di Cossiga/ il PCI/ si fa Stato/ così.

le quali viste a distanza di anni paiono già essere il seme della pianta che è l’attuale centrosinistra: per una nota e autorevole definizione un ravanello, dai frutti rossi fuori e bianchi dentro; per il Nostro forse un melograno (p. 60): «Non fate morire quell’albero gramo/ che nella mente matura ribelli semi vermigli».

Nel 1999, con la guerra in Kosovo, il processo può già dirsi a maturazione (p. 58): «Fare con sinistra quel che destra vuole:/ rinato è nel Kosovo il dolce stil novo». Kosovo che cronologicamente e nel libro è ricompreso tra due requiem, uno per Occhetto con la sua svolta socialista (p. 44):

E sei servito./ In isolamento./ Assieme a vecchi elefanti moribondi/. Notte nera. Buio nel cuore./ Coi morti. /Non è più tempo d’imparare. Quel che sai ti resta./ I giovani presto saranno/ irriverenti e più distanti/ Nel discorso che scrivi e rileggi/ conteranno i silenzi./ Da cui ripartiranno.// Per dove, non lo saprai più tu.

e uno autoptico per i sessantottini (p. 54):

I più lesti finiti in massmedia/ il grosso eliminato tra storia/ filosofia o economia/ altri per il rotto della cuffia/ acucciati in poesia/ e qualcuno solo in scuole di periferia.

Una pianta dicevamo, melograno o ravanello che sia, le cui radici attingono anche alla notte della cultura, personificata dal buco nero del 1994, anno del primo berlusconismo al potere (p. 47): «Suggerire dei libri?/ È notte/ …Tutto ora è dimenticato/ E gemono nell’umido delle cantine/ i volumi con intere pagine sottolineate.// Ora ci sono le prove./ Il pensiero era già fuggito».
Proprio il sinallagma, il nesso tra il Poeta-Scrittore e il Lettore dei giorni nostri, nesso contrassegnato da un abbrutimento bilaterale, è un fiume tutt’altro che carsico, un piano d’indagine e di lettura parallelo a quello politico, ove non si risparmiano strali. Il lettore contemporaneo è scientemente svilito da un bombardamento mediatico di sottocultura che è fuori dal suo controllo (la «industria della coscienza» e i «lettori medi costruitisi nel purgatorio dei mass media» di p. 37), e ciò lo condiziona non solo nelle scelte letterarie ma nella impossibilità di cogliere il proprio privilegio (“il lettore felice”, dimentico che la sua condizione di lettore è già un privilegio sociale, di p. 55).
Al contrario, il produttore di cultura non ha attenuanti [se non attinenti al gioco domanda-offerta] per il suo disimpegno (che in ultima analisi si riverbera sul citato ottundimento del lettore). Campeggiano qui il riferimento a p. 67:

Rifletterebbe sull’amor suo per arte e bellezza,/ che già allora celava il basamento di morti e luttuosi eventi/ su cui poggia la bella forma del cavallo immobile/ avanzante con l’eretto condottiero?

ma soprattutto la poesia di p. 71, uno dei momenti più ispirati del libro, che parte dall’omaggio (?) a Fortini per poi impugnare la sferza:

Contro i poeti che in tempo di guerra non tremano abbastanza

Abitò qui a Milano il poeta.
Coi suoi libri, una rosa in un bicchiere e la radio spenta.
Di botto erano cessati le urla nelle piazze e gli spari.
Altrove ammazzavano ora i Guerrieri. Sempre lasciando una vittima viva,
una donna di solito, che, piangendo, narrasse.
Il poeta tremante l’ascoltò, scrisse sette amare canzonette
e morì.

Ma oggi si dice: in democrazia sono uomini come tutti gli altri, i poeti!
Non si sentano in obbligo di scrivere contro la guerra! Facciano bene
quel che san fare, le poesie. Nessuno più da loro pretenda.
Uomini come tutti gli altri sono pure i guerrieri
e quel che sanno fare
ben fanno.

Addetta l’una al massacro permanente,
l’altra orgogliosa del canto suo sciancato,
maîtresses entrambe di democrazia,
in coppia procedano, orsù, guerra e poesia.

Vano è domandare ai poeti se sanguina mai
la loro rosa nel bicchiere
o tremano a volte i versi nelle plaquette.

Altrove kamikaze esplodono. E mai raggiungeranno
l’altezza sublime
della melliflua poesia adagiata sull’opulento divano occidentale.

Mentre la storia elabora nuove – guerresche, migratorie, darwiniane – brulicanti forme da dire, quella dei poeti appare ormai come un’esperienza disinnescata, comatosa: neve divenuta pozzanghera. Perché tra tacete adorniano e logorrea intimistica e arcadica una terza via è possibile, anzi necessaria (benché scomoda e ineluttabilmente perdente a livello “promozionale”, di marketing).
A proposito, quella della pozzanghera è un’immagine ricorrente in vari punti del libro (74-75 e 89):

Non posso cambiare (da solo) il mondo
e la poesia è la pozzanghera
che mi ha lasciato la bufera sociale:
sta nella melma
ma riflette ancora il cielo e i suoi nembi gloriosi.

Immagine che mi riporta a un capolavoro di René Char, Comune presenza. Del resto, lungo il libro, molte tracce rimandano a voci illustri: oltre all’esplicito omaggio dialogico coi “maestri naturali” (per citare una silloge risalente di Giuseppe Panella) Fortini e Lucáks, troviamo riferimenti impliciti a Goethe, Brecht, e persino – mi sembra – il plurilinguismo di Valéry Larbaud con l’aggiunta del dialetto…
Proprio con una terzina di Char, interpretata in modo spericolato ma non troppo, voglio provare a definire il lavoro di Abate:

L’inumano non si è convertito servile
Al banco delle parole stregate
Indiscernibile si aggira sulle tracce delle pozzanghere

Forse, restare coerenti oggi è proprio un atto in-umano, o meglio super-umano. Mentre l’indiscernibilità ai “lettori felici” è il corollario del carattere esodante della poesia, pozzanghera che possa ancora, transitivamente e intransitivamente, riflettere.
«Oggi licenziare è come sbadigliare./ C’è la Crisi. Con la Crisi si fa tutto», si legge in coda all’ultima poesia, a sancire l’emarginazione diffusa. Il monito costituito dal titolo del libro sembra attagliarsi non solo al defunto progetto politico, ma anche (e, leggendolo oggi, soprattutto) alla composizione ormai sempre più a compartimenti stagni e immiscibili della società. E quasi ogni santo giorno i rabdomanti fuori del coro prendono lezioni di democrazia a nove colonne; nessun “nativo democratico” (sic) si cura di chi è rimasto ideologicamente “indietro”. Proprio per questo l’importanza di una testimonianza “sulle tracce”, “ai bordi”, disincantata ma sferzante, non viene meno.


Il libro è stato pubblicato nel 2013 dalle Edizioni CFR del compianto Gianmario Lucini.