Lorenzo Bastida, I quaderni del vino

Il torii di Istsukushima (JordyMeow, CC BY-SA 3.0, attraverso Wikimedia Commons)

«Semplicemente dei versi, ossessivi e mi auguro inattuali, sulla malattia e la morte di una madre».

Nella recente presentazione fiorentina ho sentito di non aver reso un gran servizio alla raccolta. Che invece nei giorni di gennaio e febbraio mi è venuta incontro, quasi addosso. Attraverso I quaderni del vino sono maturato io, col mio strumentario, che forse a dicembre era più grezzo o diversamente sintonizzato.
Non spaventatevi con la mia vicenda personale: la straordinarietà delle poesie può essere colta subito. Per esempio, nell’evidenza del dolore e nella forza degli affetti. Ma certamente, come scrive Lorenzo nella premessa, si tratta di versi «inattuali»; un vino corposo, rispetto al “lambrusco salamino” della leggerezza emozionale e del minimalismo lessicale, oggi quasi di rigore, soprattutto quando assistiamo a un esordio.
Qui abbiamo una raccolta felicemente pensata, non semplice. Il «semplicemente» che apre la premessa alla raccolta, e che dunque è la prima parola del libro, è in buona fede ma fuorviante. Del resto, che ci sia stato lavoro pluriennale è evidente dalla circostanza che i testi siano iniziati a fluire già nell’immediatezza della perdita, e ne sia poi stata fatta una cernita, una espunzione (è stata omessa la sezione dell’impegno civile, che – si spera – andrà a formare un altro libro); addirittura, con le stesse parole di Lorenzo, una «censura» nella quarta sezione della silloge.
Pensata, però, non vuol dire “costruita”, inautentica. Vuol dire matura in termini di coerenza sistematica, di metrica e musicalità, di scelte lessicali e perfino “architettoniche”, cioè attente ai rimandi interni e con qualche riferimento esterno.

Tutte queste grandezze mi si sono precisate meglio con la rilettura.

La sistematicità è espressa mirabilmente dalla premessa autoriale, in cui si spiega sia la “pentapartizione” del libro, sia il nesso tra titolo e citazione in esergo. Sintetizzo il succedersi delle sezioni: i luoghi familiari a Letizia; un calendario delle stagioni (tre, manca la primavera) che costituisce l’approccio lirico al dolore; i viaggi di Lorenzo, compreso l’ultimo, in Giappone, fondamentale per il suo futuro; l’aspetto esiziale e crudo, ma anche dialogico e in qualche modo filosofico del dolore; infine, il ritorno della primavera, nella figura della nuova Letizia Maia – «il sole, la forma del tempo futuro», si legge in un verso. Proprio nel «sole» della «serena contemplazione della morte che è, o dovrebbe essere, il vino dei poeti» si incarna la citazione della postfazione a Osteria flegrea di Alfonso Gatto, una raccolta del 1962 che presenta significative analogie formali con questa (cfr. la sezione La madre e la morte) ma in cui il dolore ha una storia e un trattamento diverso.
La premessa di Bastida aiuta molto il lettore, ma a un certo punto lo lascia solo, come il Virgilio dantesco. Non arriva a essere una classica postfazione “fortiniana” che spiega ogni minimo dettaglio della raccolta (e ne ha diritto, in quanto post-fazione). A differenza di molte eterologhe introduzioni inutili e sfinenti, essa è un passaggio provvidenziale per cogliere alcune sfumature, ma non abbraccia tutti i rimandi e le arcate del libro. Ne svelo una sola, macroscopica: l’haiku che chiude la prima sezione (p. 27)

Sai, non si salpa
mai per un’altra terra:
sì per volare.

mi fa compiere idealmente un salto di trenta pagine, al termine della sezione Innesti, col riferimento al Torii, il tradizionale portale di accesso a un’area sacra (vuota) (p. 57):

Torii: l’essenziale è la via.
Il santuario, quando arrivi, è vuoto.

La carrellata dei luoghi di Letizia termina come quella dei luoghi di Lorenzo, dicendo più importante il volo / la via rispetto alla destinazione.
Molte altre sottigliezze architettoniche vi delizieranno nel farsi scoprire.

Brevemente su metrica e musicalità: la raccolta alterna, senza eccessivi schemi strofici o rimari cogenti, endecasillabi e settenari con versi senari, ottonari e soprattutto novenari. In questo senso il riferimento espresso a Pascoli che, compare nella sezione Commiato, è una esplicita dichiarazione di affetto.
Tra me e l’Autore, dalla scorsa presentazione, è aperta la questione della musicalità della raccolta. Mentre io sostengo che sia una raccolta estremamente musicale, Lorenzo vuole sottolineare di avere fatto un lavoro per rendere “atonale” la raccolta (uso volutamente un termine musicale trapiantato in poesia in uno studio “Raboniano” di Renato Ornaghi), in qualche modo spezzando la prosodia tradizionale del metro. Forse alla luce di questa precisazione c’è il timore che venga letta come divitias alius fulvo sibi congerat auro, cioè come un esercizio di lettura metrica che non si soffermi sulla sostanza della parola. Continuando a ritenere prevalentemente musicale la raccolta, e lasciando il verdetto finale ai lettori, mi sento di tranquillizzare l’Autore: il fluire della parola non impedisce di soffermarsi e meditare sui suoi grumi, sulle associazioni più felici.

Entro questa ricchezza formale la raccolta sa sempre mantenersi autentica. Il sangue, l’emozione profonda trabocca in ogni pagina, in ogni parola, e la sostanza poetica rimbalza in equilibrio tra due grandezze contrapposte: da un lato la tentazione di abbandono allo sconforto che è rappresentata dallo splendido endecasillabo «e questa sete di morire insieme» nonché, nella stessa poesia, dal capovolgimento pessimista di un noto haiku di Ogiwara Seisensui, ossia «Nonostante ci siano fiori / c’è ancora una farfalla / che cerca fiori» (p. 35):

Ma no, non è ch’io ami questo fiore
più di tutti gli altri fiori:
è che, finito questo,
non ci sono più fiori.

(…)

Non lo sanno. Non sanno che finito
questo, non ci sono più fiori.
Ma questa sete di morire insieme
che cresce, che gorgoglia in fondo al tino.

Dall’altro lato sta invece il «tentativo di stare in piedi», di pacificazione, soprattutto all’arrivo del «sole» di Letizia Maia; tentativo che però è sempre espresso con un che di condizionale, come nella citazione di Gatto. Pare quasi di trovarci davanti al Taijitu, l’ideogramma cinese di yin e yang: anche nel “lieto fine” c’è sempre una componente di incertezza, di oscuro, proprio come nel momento più nero del dolore c’è una zona chiara, rappresentata dalla dignità e dal «fulgido esempio» della Letizia morente, e forse anche dal valore iniziatico che per Lorenzo l’esperienza di morte assume per le umane e poetiche cose (p. 61):

Non credere ai poeti quando fanno
parole sulla morte ma non hanno
sentito la morte arrivare.
Una, saputo
quando, di che morire,
riemerge un attimo per condolersi,
abbozza una stretta, ripete
mannaggia, annotta – alle spalle,
come indefessa pratica, il mistero.

Ma la morte dell’altro, dell’altra…
è lì che si muore davvero.

L’ultimo aspetto che voglio sottolineare è la componente interpersonale del libro.
Questo libro parla ovviamente di Letizia ma, altrettanto ovviamente, anche molto di Lorenzo.
Sin dall’inizio: la similitudine della terzina che apre il libro e la pagina confessionale della terza poesia si situano in un capitolo che narra di Letizia («roccia madre») ma che prende avvio con una declaratoria “diagnostica”, scientifica, di inadeguatezza della «vite» (pp. 13 e 15).

La roccia madre,
nei terreni di posto,
determina il prodotto della vite.
Dice: dai frutti
mi riconoscerete,
con certo margine di deviazione.
Dai frutti un sangue –
riflessi consistenza odore –
purché sappiate e compitiate come,
quanto dimenticare.

*

Eccesso d’azoto: minore
consistenza nelle radici,
soverchia foliazione, colatura
dei fiori, ritardo
di lignificazione nei tralci,
nei grappoli di maturazione.

Anche se nella premessa l’Autore puntualizza che preferisce il mito alla psicoanalisi, io vedo in tutto libro una tangibile chiave di lettura psicanalitica: Lorenzo mette molto in discussione se stesso, o al contrario rivendica con forza le proprie scelte di vita in rapporto a una carriera “naturale” o “preordinata” (pp. 84-85):

Che faccio? Canto: ditemi, a che vale
(su, mi tengo sul facile, sul noto)
all’avvocato la sua vita,
la nostra vita a noi? Ciascuno
la luce essendo solo luce l’erba
soltanto erba fa quel che può, che deve,
più raramente quel che vuole. Io canto: voi
liberissimi di non conoscere le note, (…)
liberissimi di non conoscere le lacrime
poi nessuno, tranquilli, verrà a chiedervi perché
mai non avete ascoltato.

Teatro di tutto ciò è soprattutto la sezione più dura e correlata alla morte, cioè proprio I quaderni del vino. Sezione in cui, nella sofferenza e nell’imminenza dello stacco, si tenta quel quid pluris di dialogo, slancio e apertura che evidentemente non sempre è stato possibile o urgente. Qui la sofferenza di Letizia ha quasi tratti socratici: è lei – morente – a rassicurare Lorenzo, a impartirgli lezioni su uguaglianza, perdono, liberazione; sul lasciar andare. In più, verso il finale della sezione, interviene un gruppo di poesie che introducono un’altra figura, quella del padre di Letizia, alla cui persona, pochissimo conosciuta in vita, lei ora si ricongiunge, e che viene invocato come psicagogo in una poesia in cui la litania (“padre”) si aggancia non ad attributi propri del padre stesso, ma – per relazione – a scene di vita della figlia che ha generato (p. 81):

Padre dei rifiuti,
di dirsi di sì, di nutrirsi
padre di musi lunghi, di clamori
appiccicati in ressa sotto il tavolo,
di glosse disossate, di scienziati
che la scienza li perdoni,
di articoli in difesa dei più deboli
cioè di tutti. (…) padre dai molti volti
ché molteplice è l’assenza,
padre di un ultimo biglietto senza
destinatario
– eccola,
sii bravo.

Infine, il «non ci sono più fiori» di cui alla seconda sezione viene confutato dall’amore e dalla paternità nel Commiato, le cui parole iniziali sono proprio «piccolo fiore» che è la moglie Kao, per poi proseguire coi versi dedicati alla primogenita, Letizia Maia.
Dopo il legame di Letizia con l’asse maschile padre e figlio, si stabilisce un nesso misterioso tra Letizia Gianformaggio e Letizia Bastida, soprattutto con due poesie delicatissime: la quartina a pagina 93, il cui primo verso è identico a quello di una poesia antecedente:

Una teorica dell’argomentazione, quando sogna
è forse una bambina di altri tratti
che un brivido sorprende in prima ombra
d’infanzia – al dilagare dell’estate.

Versi che insinuano una continuità “Kieślowskiana” (onirica? metempsicotica? meramente immaginata?) sebbene «in altri tratti», tra due donne che non si sono mai potute conoscere. E tale continuità torna più intensamente con la splendida occasione di un tuffo in mare, nella poesia di pagina 97, forse l’affresco più riuscito della raccolta.

A immergere cocciuta, intemerata, folle
la tua testa bambina tra le onde
che lo scoglio è già spuma e il sole sbriciola
i ragguagli paterni,
a riscoprirti consona, forgiata
dal mare per il mare – sarai poi
come noi tutti effigie
maldestra di questi momenti,
porterai tra i capelli
monili di sabbia e di sale – a rituffarti
apnea sproporzionata,
per conquistare un ciottolo che stringi
un attimo e rigetti
oltre l’abisso (o, capita, sul piede
di un genitore immoto
o sulle natiche di un’abbronzanda) cosa
ti spinge? Che vedi là sotto?

Mi immagino tu scopra
di quanto hai già compiuto
amore modestia giustizia
paragrafi
che le correnti non alterano più.
Ti vai rendendo conto di chi sei
stata, testa bagnata, giù nel tempo?

Un’altra onda; un’altra…
Io non ti tengo.

«Ti vai rendendo conto di chi sei stata, testa bagnata, giù nel tempo?»: il mare come acqua metempsicotica…
«Io non ti tengo»: il commiato, amaramente naturale, da una Letizia e, domani, anche dall’altra.

Un libro straordinario, che si svela immediatamente ma ancor più per gradi; un libro che mi ha molto arricchito e messo in discussione (come figlio unico, come [non] epigono che “canta”).

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[Lorenzo BASTIDA, I quaderni del vino, Osimo: Arcipelago Itaca, 2017, pp. 101, ISBN 978-88-99429-29-4]