Daniele Beghè, Chicane

La 62esima uscita di Kamen’, pregiata e storica rivista diretta da Amedeo Anelli, dedica allo scrittore parmigiano Daniele Beghè la sezione poetica, proponendo una sua raccolta di inediti dal titolo Chicane e impreziosendola con un contributo critico di Daniela Marcheschi.
L’incontro con queste ventisei creazioni – tutte poesie, salve tre prose brevi – mi porta un’immediata sensazione di familiarità, sia per alcuni destini comuni, sia per una certa affinità di sguardo e procedimento poetico.
Riguardo ai destini, mi limito a menzionare quello di late bloomer(s), avendo iniziato “tardi” a far poesia. Marcheschi cerca opportunamente di depotenziare l’avverbio, che in effetti non ha alcuna valenza qualitativa. Temo però che anche nel nostro ambiente il fattore tempo esista, abbia conseguenze tangibili e spesso discriminatorie (il solo fatto che si senta il bisogno di affrontare il tema lo dimostra implicitamente). E questo è un peccato, già deplorato in altre mie note, soprattutto per il carico di attenzione e confronto critico intergenerazionale che le gabbie anagrafiche, spesso aprioristicamente, vanificano.
Nemo iudex in re sua, però. Per quanto c’interessa qui, la fioritura attardata del poeta Beghè non concreta affatto il pericolo – astrattamente possibile – di una capacità di osservazione fattasi fioca; al contrario, ravviso sin dai primi passi di questa raccolta un’estrema lucidità. A ben vedere, non poteva che essere così, poiché molta poesia del Nostro è fatta di disincanto: sostanza poco plausibile in età più verdi; concetto che per sua stessa essenza va posto a valle di una qualche esperienza.

Il contributo critico di Marcheschi evidenzia anche come lo strumentario del poeta si esprima lungo un verso sciolto, all’occorrenza capace di disciplinarsi in metri o di librarsi in lunghissimo; non manca il ricorso alla rima baciata, all’omoteleuto esterno/interno, nonché a iterazione, reticenza etc. In un caso scorgo addirittura un sapiente uso ortografico grazie al quale il poeta, ingabbiando un attributo in un inciso, lo sottrae dall’attrazione del sostantivo caricandolo d’ironia: «con sede, legale, in Romania» (p. 62).
Restando sul punto, credo però/proprio che l’arte più saporita di Beghè si giochi sull’ironia e sul sarcasmo. In particolare quando prende la scena quel disincanto cui accennavo, ossia quella quasi pacata e dolceamara sensazione di compromissione totale, d’impossibilità di cambiare il corso di un mondo ormai avvitato nella sua alienazione consumistica e lavoristico-predatoria, prigioniero e incapace di riconoscersi tale.
La critica (che, per essere svolta mantenendosi con umiltà all’interno del problema, è comunque naufragio) avviene mediante un notevole bagaglio culturale im/piegato alle proprie tesi, già a partire dai titoli.
Il lavoro sulla parola e sulla frase insiste già sul titolo scelto, Chicane. Esso infatti è lessema ex se polisemico, foriero di profondità lessicale e metaforica (“chicane”: curva a esse del tracciato, cavillo legale, ostacolo; inoltre, nella prosa di p. 74, scappatoia – attuata in primis con il viaggio ma probabilmente anche col mezzo della scrittura – al «rettilineo [cfr. più sotto] del tempo»)… Ma ecco che in più, ben dentro alla raccolta, si scopre che “chicane” è anche sciarada del titolo a p. 76 (Chi? Cane alla catena)!
Tale lavoro di cesello si declina ulteriormente, a volte, come gioco enigmistico da cui nasce l’inizio della riflessione poetica: per esempio, nello scarto sillabico logistica/logica (p. 62) o Brisighella/Brighella (p. 74). Per poi prendere maggiore respiro nella rielaborazione al grottesco di una serie di espressioni celebri ormai memetiche: La banalità del male (Arendt) diventa La banalità del traffico (p. 62, con una nuance di Johnny Stecchino); Le conseguenze dell’amore (Sorrentino) mutano ne Le conseguenze del cash back (p. 88). Sempre a p. 62, ma stavolta senza alcun grottesco, la famigerata scritta all’ingresso di Auschwitz viene seccamente confutata nel mancato riscatto dato dal travaglio quotidiano. Fino al lavoro sul cliché: È il mercato, bellezza (a sua volta, gergale mutazione di That’s the press, baby! con voce di Humphrey Bogart) diventa «È il mercato bruttezza» (p. 67: dove il capovolgimento estetico, tramite l’omissione della virgola, rende la bruttezza apposizione del disgustoso Leviatano).
Non mancano altri agganci letterari, volta per volta citati o “lavorati”, svolti: Federigo Tozzi, Bianciardi, Larkin sono quelli che ho riscontrato io, sicuramente non gli unici presenti.

Personalmente, e venendo alla polpa, ho amato molto la vena sociale e civile di questa raccolta: quella che addita le storture, ora con sarcasmo, ora con la denuncia aperta. La memoria personale, familiare e locale, del pari presente in queste pagine, ha di certo la sua importanza, anche d’interludio sciogli tensione, ma forse una minore verve complessiva.
È una disposizione poetica, quella di Beghè verso l’osservazione sociale, presente e pulsante, mai egoriferita: l’io del poeta – ha ragione Marcheschi – viene ammannito a dosi davvero omeopatiche, a tratti evaporando del tutto in una poesia oggettuale che, se il dialogo intergenerazionale ci fosse, sarebbe cara ai nuovi poeti!
Tale corrosiva capacità di osservazione, poi, avviene attraverso un occhiale (principalmente, apprendo dall’apparato, quello del commercialista e formatore) che mostra come il dito nella piaga del sistema non debba necessariamente provenire dai gradini più bassi della scala per essere ficcante.

Notevoli sono, di conseguenza, molte poesie della prima sezione (Rettlineo), principalmente quelle che abbiamo esaminato stilisticamente appena sopra. Qui lo sguardo di Beghè si sofferma sulle componenti di ingabbiamento e assuefazione date dal sistema; ciò avviene con toni distaccati, per fotografare l’ansia – ironicamente inquadrata come «relax» – delle impiegate durante la pausa pranzo (p. 65, ove le «polpette svedesi» richiamano a un nonluogo cui Tommaso Labranca, pur con spirito affatto diverso, ha dedicato un poemetto indimenticabile); oppure con aperto sarcasmo, per il rito quasi militaresco dello “spinning del dì di festa” (la marcatamente Leopardiana lirica a p. 66, Spinning di sabato, prima di due poesie che allego), condito dalla grottesca mimesi digitale del contatto con la natura (e quanta splendida ironia in quell’allitterante «tatuato Toscanini»!).
Ma in questa sezione, allato ai vari gradienti di comico, troviamo anche poesie che ne prescindono – forti, dirette e coese, in cui erompono toni duri. Le poesie di p. 64 e 67 (Dettatura del sangue, la seconda e ultima che vi propongo) formano un binomio potente: la non filtrata denuncia di un sistema che, come un cecchino con personalità mutlipla, si prende indifferente una o più vite al giorno, per poi ogni tanto omaggiarle.

Spostandoci più oltre, spicca un altro binomio, questa volta trasversale, tra due poesie delle altrettante sezioni successive. In esse – significativamente accomunate dalla presenza di metafore o similitudini canine – l’alienazione connessa alla condizione umana e al ruolo che ci viene affibbiato si riflette nello smarrimento esistenziale di fronte a un’improvvisa libertà. Uno smarrimento che coglie sia il detenuto in odore di scarcerazione (p. 76), sia l’uomo che morde la mezza età e guarda a quella della pensione, cioè della liberazione dal lavoro, come si guarda a un accanimento terapeutico.
Quest’uomo è lo stesso poeta, nella poesia di p. 87 – la penultima. Appena prima della fantasia con cui la raccolta si conclude: un salace flash-forward che non spoilero, ma che suggella il tutto in un “sarcasmo posturale”, fondendo e castigando due grandi mali di oggi, il consumismo (“lato pescatore” e “lato pesce”) ma anche il menefreghismo ambientale.

[Daniele BEGHÈ, Chicane, con un contributo critico di D. Marcheschi, in Kamen’ n.62, 2023, pp. 53-91]
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