Carlo Ragliani, Lo stigma

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Wilhelm Gross, Caino in fuga (1956-57), da una monografia sull’A. di Natalie Gommert e Dieter Wendland (Wilhelm Groß, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons)

Leggendo e rileggendo la recentissima raccolta di Carlo Ragliani, Lo stigma (Italic), ricevo sùbito un’indicazione positiva: la qualità della riflessione, sin dalla prima poesia, mi permette di apprezzare anche quel procedere per versi monoverbali – apice della «rastremazione assoluta», ungarettiana, sottolineata da Mario Famularo nella prefazione – che altrove digerisco a fatica. Le stesse poesie, salvi due casi, scaturiscono da un monoverbo preceduto da un trattino. L’altra caratteristica stilistica evidente è il non utilizzo della punteggiatura, che crea, in presenza di determinati sintagmi, un piacevole “cromatismo”, lasciando l’interprete nel dubbio se riferirli al verso precedente o al successivo. Per esempio, nella poesia di p. 86, «nel conforto dell’ironia» può essere – a seconda della lettura – tecnica di annichilimento o, al contrario, identificazione con quanto sopravvive:

– Distanze
incise nei secoli
suggeriscono
l’annichilimento
nel conforto dell’ironia
ogni partenza
è identificarsi
con quanto sopravvive

Ma andiamo con ordine.
Per spingerci nel disegno e nell’impianto dell’opera soccorre anche qui la centrata prefazione di Famularo. Il poeta medita e muove dall’episodio biblico della punizione di Caino, che in ultima analisi non è che il lasciarlo in vita, apponendogli – com’è noto – un segno in fronte e minacciando una punizione sette volte maggiore (riflessa nell’ettapartizione della raccolta) a chiunque infierisse su di lui. Nell’esperienza antropologica ebraico-cristiana, questo è un episodio capitale, in quanto qualifica il prolungamento della vita come punizione. In questo senso ha profonde radici di pessimismo ed esistenzialismo, che l’Autore coglie e amplifica, sganciandole dall’episodio (e dallo scelus a monte di esso, quindi dall’idea di ogni “giustizia” nella condanna) e riferendole piuttosto alla condizione umana tout court.
Ne fuoriesce una raccolta basata su due pilastri: da un lato la constatazione della futilità e della caducità di ogni piega del nostro esistere; dall’altro la ricerca di una qualche liberazione, extra o intramondana.

La prima sezione – HE, Vagito – è di brillante intensità; ciò può paradossalmente costituire anche un limite della raccolta, perché HE mi appare come un nocciolo che contiene già in sé tutte le asserzioni poetiche più potenti, che poi verranno riprese lungo il libro. Se ci si sofferma molto sulle poesie di apertura, si rischia un giudizio di superfluità o ridondanza su almeno parte di quanto segue. Anche perché al registro uniforme, costantemente cupo, della raccolta avrebbe giovato un’estensione più moderata. Ma va dato atto dell’alto esito almeno iniziale; in più, qualunque tentazione di downgrade nel prosieguo del libro va temperata a fronte di altre singole prove notevoli, che non mancano, disseminate qua e là nelle altre sei sezioni.

L’intensità, dicevo. In Vagito (pp. 13-25), gli spunti abbondano già dall’incipit poetico.
(Da qui navigo nell’ermeneutica assieme a voi).
p. 15: «- Nascere | soli | e soli andarsene» racchiude già l’orizzonte intero della vita; nel mezzo, «ormai la solitudine | annoda la carne | alle amputazioni | guarendo | per seconda intenzione», che interpreto come cioraniana Tentazione di esistere a dispetto della chiara, immediatamente percettibile amputazione del senso del vivere.
È la prima poesia di almeno otto assi calati in rapida sequenza. La sezione infatti prosegue (p. 16) evidenziando come ogni libertà contenga «sintomi | dell’abbandono» (pensiamo a quanta disperazione sia insita nella condizione del “licenziato”, benché etimologicamente libero al massimo grado, destinatario di un licet!) e la nostra spendita dell’esistenza avvenga costantemente «tra le crepe | del congedo».
Si prende poi contezza dell’ansia, vista come uno strisciare (p. 17) là «dove le rendite dell’essere | sono flagelli | di vanità» (Qohelet, Leopardi… e come non pensare anche alla vanity press come puntello, rendita del nostro io assetato?!)
La quarta poesia (che riporto per intero in calce), muovendo da un anelito iconoclasta al crollo del «regno» verso un «eterno comune», introduce quel «rimanere» che ricorrerà testualmente e concettualmente nella sezione di chiusura – RESH, uomo.
Proseguo – in rapida sequenza per non togliere il piacere della scoperta – tra «- Talenti | qualsiasi» (mirabile distico monoverbale per contrapposizione di concetto), «- Inganni» in cui si smaschera la frode del Working class hero.
Ancora, «proibire il silenzio»: un’importante denuncia che sarà meglio precisata più tardi («lo spreco del silenzio», p. 29). La parola come male, il profluvio verbale di questi tempi “social”, la distanza dal silenzio visto oggi come qualcosa da mortificare, la parola come misura della nostra condanna e lontananza da dio (del resto innominabile se non nella preghiera, il secondo comandamento); perché «tu taci | ché la parola è dell’uomo» (p.61).
Infine, quasi a chiusura di sezione, una via possibile: «Spingere | le ginocchia nella terra | e nel sale della terra | essere niente» (p. 23). Trinità modernissima che interpreto così: volgersi a Gea/Gaia; dedicarsi all’amore per l’uomo, il sale della terra (Mt. 5:13-16); annullare completamente il sé.

Spingendoci oltre questo brillante compendio sapienziale d’apertura, la forma e il fervore immaginifico di alcune poesie prevalgono sulla novità dei contenuti; che vengono, piuttosto, precisati. Suggestivo è il richiamo al concetto di caduta, cui è dedicata una apposita sezione – TAV, Caduta – e che affiora passim: caduta dell’uomo, caduta di un insetto in una poesia mirabile che trascrivo qui sotto, «caduta del reale» (p. 93). Viene in mente, più ancora che il precipitare luciferino, La chute dans le temp Cioraniana, che mi pare abbia non pochi punti di concordanza con Ragliani, specificamente con quella «seconda intenzione» di cui all’incipit (cfr. «Noi percepiamo innanzitutto l’anomalia del fatto bruto di esistere e soltanto in seguito quella della nostra situazione specifica lo stupore di essere precede lo stupore di essere uomo», trad. Tea Turolla).

Tra vari accenni a oggetti di fede e liturgia, è forte l’immagine del battesimo «come ragnatele | che affondano nella disgrazia» (p. 79), non è chiaro quanto redimendola. Non mancano intervalli di abilità descrittiva («- Denti | paratassi consuetudinaria», p. 87) o accenni a miti non religiosi («il ritorno ha vela nera», p. 74).

Per chiudere, mi preme rilevare come il secondo pilastro cui accennavo – quale salvezza? – riceva una risposta composita, a volte oscura, probabilmente in fieri. Abbiamo già rilevato che, per il poeta, annullamento del sé e silenzio sono due possibili risposte. Ma come armonizzare il «rimanere» delle ultime pagine del libro col «separarsi dal mondo» nella preghiera, oppure il già citato essere niente col «non sparire | come un otre nella nebbia»? Probabilmente, prima ancora che con la fede, con un rigoroso esercizio ascetico di frustrazione dei propri istinti. Quel «fissare l’attimo sterile | e perdere tutto», salvo l’amore e la carità di cui nella triplice via di p. 23. Posto che, come nella seconda poesia qui in calce, «spariremo come tutto», si dà salvezza intramondana solo nella rinuncia a stringere quel «poco che rimane» e nella carità.

***

– Brama
che tutto finisca
che il regno
crolli
nella trama
d’un eterno comune
il sangue sarà mercurio
tra la supplica
e la superficialità
rimaniamo come argini
nella costrizione
dell’indebolirsi.

*

– Orfani
carni esposte
l’estensione all’abisso
delle tue mani
spinte dall’inerzia
negli annali
della vergogna.

*

– Pelle
la sindrome
a ricordare
che nulla di quanto
stretto
al poco che rimane
è sufficiente
per sorridere
per ignorare
che spariremo
come tutto.

*

– Precipitare
nel salmo della nebbia
rende insignificanti
un insetto all’angolo
che muore
solo
per sospendere
la caduta.

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Carlo Ragliani, Lo stigma, pref. M. Famularo, Ancona: Italic, 2019, pp. 109, EAN 9788869742675 (formato ebook: n/d)