Alessandro Franci, La lingua convenuta

Statua di arciere a Swakopmund, Namibia (foto Grant Durr su Unsplash / Licenza unsplash per uso libero non commerciale)

Con La lingua convenuta, opera vincitrice del “Lucini” e pubblicata la scorsa primavera da Vydia con prefazione di Alessandro Fo, il poeta fiorentino Alessandro Franci si pone in forte continuità con l’altrettanto fortunata e pregevole raccolta precedente, La fragilità dei pesi (SEF, 2020), che purtroppo alla sua uscita non recensii nella modalità approfondita che meritava. Consiglio fortemente una lettura congiunta, non importa nemmeno in che ordine, dei due volumi, onde poter apprezzare come la ricerca di Franci proceda con sicurezza e omogeneità. Attenzione, però, a non considerare La lingua convenuta un clone del suo predecessore: ne costituisce piuttosto, direi, una parte speciale, un approfondimento lungo la rotta tracciata a monte. Forse si può parlare di una concrezione e una chiarificazione, con l’aggiunta di alcuni debiti verso i grandi Maestri (uno per tutti, «eteronimo e sosia», ossia il verso “pessoano” con cui si apre la nuova raccolta); nonché di una indagine più attenta al recupero del soggettivo, la cui centralità si evince dalla scelta del titolo, che si riferisce alla seconda sezione e dunque impernia la percezione del lettore, se non il libro, su una dimensione più personale.

Facciamo ordine, abbreviando per comodità La fragilità dei pesi (2020) con FP e La lingua convenuta (2022) con LC.
La cosmologia di Franci, la sua attenzione, sono qui le stesse che troviamo in poesie chiave (e particolarmente pregiate) de La fragilità: in particolare ricordo Visita obbligata (FP, p.17), Disordini, (FP, p. 18) molte se non tutte le liriche della sezione di apertura (Interni). Addirittura ci sono dei leitmotiv, degli agganci tematici: fotografie (Remoti e vivi, FP, p. 44), «le case zeppe di memoria» con tutto il loro inventario (Case, FP, p. 68)… Per tacere del fiume (altro debito, decidete voi quanto Ungarettiano o Luziano, o anche Dantesco, perché connesso all’oblio di ciò che va e alla sola presenza di ciò che resta): fiume presente, nella raccolta del 2020 in Echi nel tempo (FP, p. 48) e qui invece riproposto all’inizio dell’ultima sezione, «fiume o torrente, gorgo del niente | ma che resta» (LC, p. 57: da notare l’inizio della poesia coi tre puntini di sospensione, stilema assai diffuso in FP, quasi a indicare la ripresa di quel discorso). E uniforme nelle due raccolte trovo l’attenzione per le periferie: territori orfani di beatitudine (LC, p. 15: «limbi e purgatori»; nessun paradiso), teatro di bisbigli (FP, p. 40) come precipitato di testimonianze perdute (LC, p. 16), o di risvegli come finestra spalancata verso un elemento gnomico fondamentale in Franci, ossia il senso diffuso di abbandono e rovina delle cose presenti (LC, p. 18).

Benissimo, in breve, chiosava Caterina Verbaro scrivendo in prefazione a FP di «un vedere rabdomantico»: Franci vaga, ora come allora, cercando testimonianze negli oggetti, negli elementi architettonici e paesaggistici.
Quella che forse è la leggera deviazione di rotta, o piuttosto la marcata sottolineatura de La lingua convenuta è nell’elemento psicologico, ossia nella coscienza e volontà di quel «fare una perizia» prospettato letteralmente in FP, p. 21. Perizia che darà un esito che già si conosce: «si assume il peso e la colpa di | oltrepassare o di fermarsi al fitto | resoconto di come stanno davvero le cose» (FP, p. 26). Ancora con Verbaro, ma capovolgendola, questa volta siamo non alla «flânerie dello sguardo» ma proprio al tentativo di tradurre «in inventario e sistema»; magari pur mettendo conto, come accennato sopra, che si conoscono già le risultanze e le conseguenze dell’operazione.

La lingua convenuta ha certamente qualcosa, se non di sistematico, di sinfonico, quadripartita come è in sezioni.
Oltre la linea di confine riflette su temi come l’abbandono senza scampo di chi più non è, contrapposto alla nostra inquietudine indagatrice e alla decadenza tangibile delle cose.
La seconda sezione, quella eponima, ci porta nella citata dimensione più intima (amici? familiari? vicini?): una koinè della quale conosciamo prevalentemente l’asciuttezza “ergocentrica” dei modi e della parlata: «L’accento sul poco conto quotidiano | per convenzione fu la lingua convenuta» (LC, p. 32); «Frasi immuni da dialetti | e perfezioni, fedeli alle avarizie» (LC, p. 33).
Per inciso, il titolo mi porge una duplice ambiguità. La prima di carattere culturale, rimandando a La lingua salvata di Canetti, altro faro di Franci (anche se sappiamo che la gerettete Zunge in realtà è la lingua-organo, protagonista di un episodio infantile). La seconda, forse ultronea ma affascinante, verso un senso carattere processuale, come mi suggerisce la ridondanza per convenzione-convenuta del v. riportato sopra: tale ridondanza sembrerebbe chiamare ad altro; dunque, lingua non solo concordata ma anche chiamata in causa, lingua accusata. Quasi che la sua possibile ricchezza (dialettale o aulica) fosse oltraggiosa verso chi è inchiodato alle «avarizie» e «miserie da cortile».
Il terzo movimento, La metafora chiara, è quello della declaratoria di sconfitta, della linea di inconoscibilità del passato al cospetto della quale il poeta attua la propria ritirata. Verso un finale di accettazione Dell’oblio presente contrassegnato, nella potente chiusa della raccolta (LC, p. 62), da quella che è la gnome della poesia di Franci: la necessità di uscita «da queste stanze familiari» con in mano «quello che non sappiamo», senza un risultato fondante del sé, con indulgenza verso ciò che non fu intuito od operato a tempo debito; immergendosi nel «grande spettacolo» del presente e delle sue cose, non importa poi troppo quanto gratificanti.

Lungo questa architettura, le poesie sono di notevole livello e rendono la raccolta coesa. Il verso è libero e sciolto ma risulta evidente la presenza diffusa di procedimenti come allitterazione (veri ostinati sillabici) o rima interna. A livello lessicale e concettuale si procede spesso per contrasti: Alessandro Fo sottolinea, tra l’altro, l’ossimoro materico plastiche-plasma. Io ho apprezzato molto la poesia dell’arciere, in cui a una statua in posa olimpica, simbolo di tempi floridi o di una serenità adesso inarrivabile, fanno da contraltare la sua ossidazione e il suo sorvegliare opposti destini. Questa poesia, situata a p. 19, è una delle quattro che ho scelto, a evidenziare musicalità pensata e attenzione versale, anche in una raccolta che si preoccupa anzitutto di riflettere. Trovate esempi e liriche in uno slideshow del mio Instagram, cui senz’altro vi rimando.

[Alessandro FRANCI, La lingua convenuta, prefaz. A. Fo, Montecassiano: Vydia Editore, 2022, pp. 62, EAN 9788897374626, ebook n/d]