Carlo Bordini, Gustavo

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Spendo volentieri due parole sul libro Gustavo. Una malattia mentale – opera narrativa del 2006 dello scrittore romano Carlo Bordini, che suppongo conoscerete già in molti come ottimo poeta.
Non è assolutamente facile, perché immergendomi nella lettura il romanzo-racconto si è dimostrato subito “un capolavoro personalizzato”, spingendosi, come fece qualche mese fa Haiducii di Tommaso Labranca, a parlarmi della mia stessa vita in termini così specifici che non riesco più a sapere con certezza se il bene che io ci ravviso sia oggettivo o soggettivo. Sono quasi sicuro della prima ipotesi, però 🙂

La penna di Bordini, come un utensile da giardino, riesce, seguendo le sorti del protagonista, a localizzare nel profondo del terreno ed estirpare, portandole alla luce, le radici di un disagio esistenziale, che sono fondamentalmente la paura, un forte danno all’autostima ricevuto chissà dove e come, e un vuoto di esperienza e avvenenza che ha piegato la lamina del suo carattere, nonostante un’integrazione apparente nel sistema rappresentata da un lavoro (a bassa intensità) presso un ministero.
Questo a mio parere il nocciolo dello stato allucinatorio di Gustavo – stato allucinatorio che allaga e s’impadronisce della scena. Alla base però ci sono una paura tremenda e un senso di inadeguatezza verosimilmente impostogli sin dalla tenera età, poi auto-verificato nello scarso conseguimento relazionale. Non a caso una pagina memorabile del libro, crescente di tensione fino alla regressione infantile, è dedicata alla “paura e indegnità” del protagonista, a pp. 105-106:

Gustavo sentiva che questa strada gli era preclusa (…) per il suo infelice stato d’animo che consisteva nel fatto che mentre gli altri camminavano sopra il pavimento, ed erano grossi e camminavano con il passo sicuro anche se malfermo da vecchio, egli si sentiva come uno piccolo e storto e debole e bianco che vivesse e camminasse sotto il pavimento di legno, e lo guardasse, e sapesse di non poter salire lì ma sghignazzasse e ringhiasse e maledicesse di lì sotto sentendosi una gran morte dentro ma soprattutto un gran senso di paura e di indegnità di entrare sopra, e il temere terribilmente il confronto coi grandi e il sapere che se starai in mezzo a loro saranno cazzi tuoi e scopriranno la tua natura extraterrestre e ti linceranno con terribili forconi e falci e martelli [lo sfondo è verosimilmente una sezione della FGCI, ndr] pesanti come magli, e ti squarteranno e ti inculeranno e ti stupreranno e mangeranno le tue carni e mentre le mangeranno rideranno di te dicendo: “buona questa porchetta”, e tu ti troverai come una bambola spennacchiata a latrare nel buio e nel buio dei loro stomaci. E proprio per questa paura dei grandi degli orchi che ti mangiassero cazzo ti arrostissero in padella.e ti spernacchiassero e beffeggiassero dicendo: “questo qui non ce l’ha fatta, era uno stronzo”, egli sapeva che non si sarebbe mai avventurato sul pavimento di sopra, non era mica scemo, appena lo avessero visto avrebbero urlato e avrebbero detto: “eccolo, eccolo lì, prendete quello là, non deve scapparci vivo”. Ah! 

Quanto a me, vi basti che il termine indegnità ricorre già nel titolo del mio libro d’esordio, di un anno successivo all’uscita di Gustavo.

Ugualmente il vuoto di avvenenza femminile (ricorre nei miei titoli e versi e) riveste, nei ragionamenti del protagonista e in una sporadica figura di nome Olga (forse stereotipo di donna bellissima dell’est, foriera di approvazione sociale: «Gli uomini che curavano la spiaggia erano molto gentili con loro», p.10), un ruolo fondamentale e ricorsivo soprattutto nella prima parte. Sia come sensibilità al fascino di donne descritte prima di tutto come “belle”, “seminude”, “sinuose”. Sia come tratto di insoddisfazione, di fronte al quale Gustavo mostra tratti evidenti di narcisismo patologico i cui effetti venefici rovesciano puntualmente sulla sua prima di tutto non avvenente fidanzata, Marina, sin dall’incipit in cui è lei a parlare prima di venire abbandonata dal protagonista: «Non sono niente… Lo sono solo nel momento stesso in cui lo faccio. Per il resto non sono niente».
Parallelamente, sempre nella prima pagina: «Egli sperava che un giorno lei diventasse bella. Immaginava: dato che lei è così brava, un giorno sicuramente diventerà bella. Gli piaceva amarla al buio, e lei diventava giovane come l’erba».

Su questo nero duopolio di indegnità e vuoto estetico (irrealizzazione) fiorisce la malattia; che non è solo il piano sequenza dell’allucinazione conclamata entro la quale tutta la narrazione, più o meno si situa, confinando la realtà oltre margini incertissimi; ma è anche tutto un insieme di manifestazioni psicologicamente e/o clinicamente rilevanti, sapientemente individuate, come regressione infantile (come sviluppo del bisogno di accudimento) o reazioni di panico. Oltre a episodi di sdoppiamento: l’allucinazione di Marina assorbe il ricordo di una ragazza fugacemente incontrata in gioventù, Nora, e si sdoppia in essa in una connotazione marcatamente sessuale e adolescenziale). E oltre a meccanismi di spersonalizzazione, giungendo Gustavo a dialogare compiutamente con l’allucinazione delle teste dei suoi amici parlanti in giardino (episodio che mi rimanda abbastanza al “carico-scarico libri in testa” del Peter Kien di Canetti).

La narrazione è di fatto un vaniloquio orizzontale (ecco perché preferisco parlare di “racconto” lungo piuttosto che di romanzo, come del resto di racconto si parla nell’Avvertenza finale), ma conosce qualche momento diacronico di consapevolezza. Consapevolezza suggestivamente rappresentata come ingresso in una catacomba chiamata luogo del pericolo (p. 122). Accade quando la auto-esclusione dal mondo – rappresentata volta per volta dal foro nella testa di un angelo o da una parete di madreperla costantemente a contatto con la guancia – viene ricondotta dallo stesso Gustavo a quello che è, ossia istinto di inadeguatezza e terrore del giudizio altrui. Accade anche quando il vaneggiato amore totalizzante per Marina viene ridimensionato cronologicamente e nella sua intensità.
Uno schiaffo “esterno” di consapevolezza, o meglio di condanna, arriva invece sul finire del racconto da parte del narratore, che all’inizio dell’Appendice (p.141) vuole sgombrare il campo da ogni compassione, simpatia o innocenza verso il protagonista: «uomo occidentale, garantito», «uomo da psicofarmaco», non romantico né destinato al sacrificio. «Egli non ha mai amato Marina. È un personaggio sgradevole, spregevole, banale ed offensivo. Egli dunque non muore. Sopravvive cincischiando banalità e luoghi comuni in serie». In altre parole, un narcisista patologico, ut supra.

Innumerevoli sono i richiami e le sfaccettature psicologiche introdotte nel libro (compreso un ammiccamento all’insetto kafkiano). A ciò si aggiunga (ma è una spezia in rapporto alla sostanza della caratterizzazione patologica) una narrazione volutamente stordita e frammentata persino nella formattazione dei paragrafi.

Risultato: lettura stupenda e per me tremenda.

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NOTA BIOBIBLIOGRAFICA. Gustavo è stato edito da Avagliano nel 2006. Al momento della redazione di questa nota, non era più reperibile se non in biblioteca. Se ho potuto leggerlo e apprezzarlo è grazie all’amicizia di Carlo, che ha amorevolmente distribuito le copie residue a chi, come il sottoscritto, ha mostrato interesse per la lettura.

Fortunatamente, nel 2018, Gustavo è confluito nel volume (cartaceo) Difesa berlinese, edito da Luca Sossella; libro che ripropone molte prose di Carlo, e che a oggi è adeguatamente distribuito.  
Due anni dopo, purtroppo, il 10 novembre 2020, la splendida persona e la splendida penna di Carlo ci hanno lasciato.