Anna Maria Curci, Nuove nomenclature

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Stando alla sua twit-descrizione Anna Maria Curci impara, insegna, legge, scrive, traduce. E, con la stessa entrée in punta di piedi con cui antepone il discere al docere, etichetta le proprie Nuove nomenclature – inedite, scritte nel 2010 e 2011, raccolte da Fernanda Ferraresso su Cartesensibili – anzitutto come “filologia” nella breve (e perentoria) nota introduttiva su La dimora marottiana, nota da cui ho tratto qui la frase saliente facendone titolo.
Che la poeta si veda, o voglia in certo qual modo dipingersi, alla finestra, rispetto all’azione e rispetto alla poesia? quasi come se la situazione ci lasciasse altro da fare: potrà questa bruttura che è il mondo rovesciare se stesso? (Dostoevskij, techno[cracy] remix) e quasi non fosse sotto gli occhi di tutti che purtroppo la poesia à la page di oggi è all’85% proprio quel “fumo rancido”, sofisma da fine pasto, bartezzaghismo fuori contesto, intimismo spicciolo, autocelebrazione, “occasione” (caduta etimologica)?
Non so. Filologica o poetica che dir si voglia, certamente l’intuizione di Anna Maria Curci crea poesia. E di finissima fattura.
Chi scrive ha attraversato, nella sua trascurabile produzione, una fase mitologica-archetipica, rivolta soprattutto a cercare la parola o l’immagine bi- o pluridirezionale. Forse un gioco a nascondersi, come con sagacia sospettava la dedicataria d’un lunario. Attualmente invece privilegia il sociale (o il confessionale, che in regime di conformismo cronico è quanto mai insurrección solitaria), ma non riesce più a scuotere quanto vorrebbe il caleidoscopio linguistico.
Nelle neonomenclature curciane, fondendo e sintetizzando dato culturale e realtà, l’espressione approda a un livello qualitativo superiore.

Clandestino

Sta dalla parte dei respinti
e non l’ha scelto. Il tedesco
lo chiama nero, se lavora,
a bordo passeggero cieco.
Il francese lo bolla senza
carte, per l’inglese è immigrante
illegale. Soliti ignari,
qui, rispolverano il latino.
Eppure, “di nascosto” era “clam”:
cosa c’è di segreto in chi,
nell’angolo, prega che lingua
non taccia o copra il suo destino?

Siamo agli antipodi del Moses schoenberghiano (“O Wort, du Wort, das mir fehlt!”), verso quello che sembra un moto di espirazione rispetto alla inspirazione-contrazione polisemantica: la parola esiste, è testimonianza corposa, ed è svenata con mano delicata ed esperta;

i rivoli di linfa scorrono ordinati, formando silhouettes arboree, a testimoniare il disordine. O Bäume Lebens: jetzt winterlich! – verrebbe, come spesso avviene, da parafrasare rilkianamente.

Assetto

Lo montano e lo smontano.
Finanziario economico
arranca e non demorde
(arraffa ed è concorde).
Ribassato, sportivo,
di vetture da fiera
la parata lo afferra:
ed è assetto di guerra.

Come nei tiranti di una ragnatela, ogni forza bilancia la potenziale preponderanza delle altre: nitida e caustica attenzione al reale, forte significanza culturale (come l’immagine buddista della corda nell’estratto seguente), ricerca metalinguistica e metamorfica sulla parola, cura del metro e della musicalità.

Flessibilità

Ammirami: sono bella e scattante,
disse la corda tesa all’infinito.
Sinuosa quanto basta, son capace
di ogni acrobazia del tempo pieno.
Ho attraversato sale e corridoi,
indugio in open space, che vanno tanto.
Inarcava la schiena, la vezzosa,
sfoderava tronconi propulsori.

Forse siamo lontani dall’ansia di “creare il mondo nominandolo” (vedi, tra i tanti, il Thoreau del Walden), forse no – nel senso che vi puntiamo un cannocchiale finissimo, flaianiano, distribuendo (poche) luci e (parecchie) ombre come un demiurgo o un direttore del palinsesto alquanto indigesto ai partiti. Neomelodici (vedi la voce ad hoc) e Sindaci (ben riconoscibile quello alla triplice lettera esse) sono tra i figuranti di una parata fatta di disagio sociale, slogan e dantesche parole-vessillo alla corsa degl’ignavi.

Geborgenheit

Procediamo a tentoni,
braccia avanti e occhi chiusi,
e nel budello stagna
già rancida l’attesa.
“Intimità, sorelle!”
“Sicurezza, fratelli!”
Restano mozziconi
di ali inconcludenti.
Così ci avviluppiamo
su noi stessi e scalciamo
via l’altro, ché protetto
resta solo il rifiuto.

La disposizione alfabetica farebbe pensare in automatico all’Alfabeto apocalittico di Edoardo Sanguineti, ma lì l’andamento è orizzontale – non si va dentro la parola – e l’affabulazione (il gioco allitterante e tautogrammatico) prevale sull’osservazione, o meglio la ricopre con uno strato istrionico, dolciastro, nemico del retrogusto (e quindi dell’apocalisse medesima).
Qui, con evidenza, lo scavo, l’espirazione-espansione di cui parlavo sopra, realizza un carotaggio potente ma controllato, meno generico e più adatto a parlare di noi.
Espansione filologica che poi, quasi ciclicamente, si chiude con un’immagine di compressione informatica, vista come allegoria del processo di desensibilizzazione di massa:

Zip

Compres(s)a l’estensione,
scorre placido il fiume
di dati sbrodolati.
Compattato, il soverchio
assume le sembianze
di tassello essenziale.

Una poesia forse non performativa ma atta a essere meditata; di certo una poesia perforante e almeno per me assai formativa.


NOTA BIBLIOGRAFICA: Le Nuove nomenclature con altre poesie hanno, pochi anni più tardi (2015), ricevuto pubblicazione cartacea per i tipi de L’arcolaio.