da Miniserie a Il ragazzo donna: la mia lettura (a ritroso) di Luisa Pianzola

Ho preso visione della Miniserie (Ingaggi) di Luisa Pianzola sul sito Blanc de ta nuque di Stefano Guglielmin e ne sono rimasto piacevolmente impressionato. Il link qui sopra presenta Autrici e Autori dell’European Poetry Tournament, tutte/tutti meritano una lettura, la Miniserie di Luisa è nella seconda da metà del post.
La forza del poemetto, secondo me, è tangibile e considerevole nel saper evocare un diffuso malessere che riguarda noi tutti, in pieno. Di primo acchito, in una corrispondenza con l’Autrice, ho scritto di cicatrizzazione, di abrasione da azoto liquido; ripensandoci mi esprimerei più propriamente in termini di dolore “trattato”, attutito da qualche ovatta o medicinale dell’anima senza che venga meno una certa percezione di assurdità nel rituale della vita. In altre parole l’ingaggio tratteggiato da Pianzola è potente perché descrive il processo relazionale in una sedazione o anestesia del nervo entro la quale comportamenti e dinamiche sociali si snodano in goffe danze rituali senza musica. L’azione è svuotata di qualunque realizzazione e gli attori procedono come pedine di un gioco dell’oca, dettato da consuetudini socio-culturali ormai immiscibili con la “foiba esistenziale” del proprio intimo (darsi un voto come amante; enucleare le proprie parti anatomiche più attraenti [il culo come curri-culum]; segnare i giorni fertili sul calendario – in cui, si suppone, accoppiarsi meccanicamente in pose funzionali, magari terminando in tempo per il film di seconda serata), interrotte solo dalle “domande sfavillanti” dei bambini, fortunatamente non ancora (per quanto?) assorbiti dall’ingranaggio.


La precedente (ultima in cartaceo) prova, ossia Il ragazzo donna (La Vita Felice edizioni, 2012), che ho acquistato e letto sulla spinta entusiastica di quanto sopra, condivide almeno in parte con la Miniserie un approccio attento al circostante, ma lo porta avanti per altre strade. La più evidente è l’andamento in prosa, al cui interno l’appartenenza poetica intenderebbe fondarsi su un flusso di coscienza che si rovescia all’esterno, come annota Piera Mattei nella presentazione, in parole “ruminate e rigurgitate” (ci torneremo). Più delineata qui è la componente autobiografica che si lascia intuire soprattutto nelle sezioni (che Pianzola chiama sequenze) iniziali; nondimeno si tratta della parte più riuscita del libro, in cui le pacate sconfitte personali, ancora disossate delle emozioni (il “non capisco cosa c’entra toccarsi vedersi, io non mi tocco non mi vedo da anni” di p. 24 mi sembra un nitido anello di congiunzione con Miniserie), tracimano per ergersi ad algidi verdetti di condanna d’intere generazioni colpevoli d’immobilismo quando non di sindrome di Stoccolma, come a p. 16:

niente è più successo. Abbiamo avuto incidenti, scontri tanti e un crepuscolo di conquiste, piccole vittorie senza mercato di fronte a un mercato più potente. Le cartine di sigarette arrotolate, distribuito ai ragazzi un buon numero di pistole. Un gusto di ferro, di salato ancora in gola. Ma non è questo che vale la pena ricordare. È il precipizio mal riempito, la buca profondissima dove siamo caduti ridendo, ancora ridendo e per sempre, con un niente da pregare, un supplizio ridicolo.

o, più ontologicamente e con abile parallelo climatologico, in Coltivazione del deserto:

non mi spaventi. Schiacciami, tempo. Pianifica per tutti noi la totale assenza di futuro. Vedi che restiamo immobili duraturi, finché la biologia ce lo permette, anche per moltissimi anni. Possiamo vedere molto bene, da questa postazione, la tundra ghiacciata delle possibilità. Ci prepariamo a coprire, dopo l’esondazione, migliaia di chilometri resi vergini da un sistema solare spietato. Ma abbiamo bisogno – non ci crederai – di questa desertificazione. L’abbiamo voluta, ci appartiene come questo suolo lunare da nausea.

fino a parole che potrebbero stare in bocca a Sileno o in una chiusa di Philip Larkin:

niente è ancora troppo poco. Tanto vale il mai stato, il mai essere stati e con un colpo di frusta completare il quadro: zero. Uno zero docile, attivo, dove poggiare la sapienza molle.

Le pp. 16-21, da cui ho estrapolato quanto sopra, certamente costituiscono l’acme della raccolta, insieme alla p. 105 dove, giocando sul contrasto con un fatto storico di fine Ottocento (Sante Caserio) e le reazioni che da esso derivarono, Pianzola è capace di delineare tutta l’apatia routinaria e sovrainformata del giorno d’oggi:

leggo: diecimila morti in piazza. Non mi risulta, non sento strazio né sangue né ferite. Rileggo: ventisette calorie a biscotto. Questo è un dato che mi appartiene.

Ugualmente significative, sempre nel segno di una poesia veramente al centro della scena, che indichi le “zone erronee” dell’attuale condizione umana, sono la raffigurazione di un’umanità-carnaio al mare, fotografata nella sequenza del suo pensiero angoscioso (p. 63); e prima ancora la sequenza “l’arte, innata nella donna, dell’accudire” (pp. 59-62), ove con sapiente ironia manualistica vengono ripercorsi persistenti luoghi comuni sulla subalternità femminile, restituendo un’atmosfera di frustrazione e vacuità che non risparmia la stessa attività di scrittura e ricorda da vicino il misurato sconforto della casalinga Laura Brown/Julianne Moore nel romanzo/film The Hours:

sempre mentre il marito è al lavoro, la signora attenta alla salubrità domestica non rinuncerà al vuoto metafisico del lavare pulire spolverare riordinare. Mansioni indispensabili a un habitat interiore votato all’essenzialità (prezioso soprattutto per la femmina).
Per creare, mettere al mondo, occorre uno spazio morbidamente assente.

Spunti ragguardevoli, dunque, entro un libro che però, oltre a essere incostante, non mi convince del tutto proprio nell’assunto “metrico” di fondo, ossia nella scelta di una prosa poetica che non è supportata da sufficiente arditezza (che non è per forza oscurità) nelle soluzioni. C’è anzi una certa discronia: da un lato, negli esempi citati, il nitore dell’argomento è trattato con una certa piattezza formale, dall’altro gli esiti stilisticamente più efficaci – l’esplosione cromatica dal sapore rimbaudiano delle pp. 71-79, per esempio, seppure la sua contrapposizione a un “antidoto: grigi e grigi” preluda anch’esso alla Miniserie – danno forma a una sostanza più “flaneristica” e meno suscettibile di sfiorare tematiche di ampio respiro come nelle sequenze richiamate in precedenza.
In questo senso non sono d’accordo col rilievo “gastrico” di Mattei citato all’inizio, o perlomeno avrei voluto più coraggio nello spiegazzare il filo di un discorso che, in tutto il libro, “tiene” ancora troppo, narrativamente coeso.
Credo allora, e in sintesi, che la lodevole attitudine di Pianzola – non uniforme ma ben avvertibile anche lungo Il ragazzo donna – di saper cantare la condizione umana con parole semplici entro gelidi scenari, si esprima nettamente meglio in un contesto di versificazione stricto sensu, come nel caso della Miniserie che, nelle parole dell’Autrice, è parte di un lavoro in divenire e di sicuro, a mio avviso, costituisce la direzione maestra da seguire.

Nota finale sul lavoro editoriale: volume ben curato nei dettagli, ma una perplessità su quel “redarre” di pag. 53; forma, sì, d’uso, ma ancora errata e, soprattutto non giustificata dal contesto della poesia (l’avrei vista, al limite, in un triste scenario aziendale, tra una “reportistica” e un’esigenza di “efficientarsi” – tutte cose, queste ultime, ahimè già trovate in giro). Questi casi purtroppo sviano non poco l’attenzione.