Leopoldo Attolico, La realtà sofferta del comico

Maschere teatrali a Carbonia (Roberto Ferrari from Campogalliano (Modena), Italy, CC BY-SA 2.0, attraverso Wikimedia Commons)

Dovessi rappresentare la scrittura di Leopoldo Attolico sceglierei la ricetta di un cocktail: due parti di Vito Riviello, maestro della poesia comica; una parte dell’ultimo Saramago, quello che dal divano della Dandini ci ha fatto giustamente meditare, sancendo che più si diventa vecchi (absit aetas Attolico) più si diventa liberi, e più si diventa liberi più si diventa radicali. Ecco allora che la lettura della raccolta del poeta romano e romanista, La realtà sofferta del comico, edita da Aìsara nel 2009, diventa una meta-lettura perché, al di là del suo contenuto, costringe il presunto recensore a confrontarsi, emozionalmente direi, coi singoli ingredienti, andandoli a cercare nella cambusa sociale e personale. Ove vengono tenuti ben nascosti – questo è il punto.
Comico non è solo non prendere e/o prendersi sul serio. Ma è prendere per i capelli il serio mostrandone la ridicolaggine. Di più, il comico è attiguo alla realtà perché quant’altro mai sa svelarne l’imperfezione. E proprio l’imperfezione, nell’apertura di p. 9, è il fulcro della poesia stessa:

Bella pretesa una poesia senza errori/ una poesia perfetta/ Non è così che si fa/ – quando è proprio la lieve imperfezione/ che cresce su se stessa/ a fare dell’ape e delle sue cellette/ l’unica chance d’amore sufficiente/ il redde rationem che ti salva dalla tangente (…)

Eppure dove sono i Palazzeschi, i Riviello di oggi? E se esistono perché non sono in prima fila? Il serio ha vinto. Ha vinto – come scrive nella postfazione Gio Ferri – in poesia, complice a mio avviso un principio di adeguatezza (mi autocito, ma anch’io scrivevo con una punta d’ironia: “se uno è felice pensa ad accumulare amplessi, mica versi”, sulla scia non tanto di Leopardi, come notavo, ma di Tenco). E ha vinto nella società perché la ubiqua competizione non ha pietà per qualsivoglia distrazione, mancata ostentazione, o peggio confessione. Dunque per ogni involontaria o studiata imperfezione. Persino la legittimazione alla (sedicente) comicità procede per gran parte sulla base del modello plutocratico “barzelletta del capo”.
Ecco che la realtà di chi vede in controluce la realtà stessa è giocoforza sofferta, almeno in parte. Il dialogo è impervio (p. 80):

(…) quindi, ti prego/ non parlarmi addosso a perpendicolo/ mi dai una strana sensazione di soffocamento:/ come le bollicine di spumante/ orfane del tappo/ rimandate indietro da un dito sentenzioso/ che alla poesia del gioco ha posto il veto/ d’una filosofia seriosa ad alzo zero/ cocciutamente contraria allo scoppio!

Ma la libertà permette di uscire da questo stallo. In ultima analisi ironia e autoironia consentono di misurare la propria libertà.
Attolico ha molta libertà e la dimostra copiosamente. In particolare quando scrive dell’ambiente poetico, nitidamente suddiviso mediante il tasto shift in buoni e cattivi, ma soprattutto popolato da schiere di ignavi che corrono dietro alla bandiera dell’atteggiamento en vogue.
In generale la sua poetica, affinata da una venticinquennale militanza, si esprime con uno strumentario variegato, che va dalla fulminante parodia ungarettiana o dannunziana (p.38)

Azotemia/ glicemia/ pessimi umori…/ Aaah! Perché non son’io/ co’ miei pastori?

al ritratto sardonico, nel caso di p. 32 puntato verso uno dei totem del serio, lo stiloso:

Ultraimpeccabile/ indefettibile/ solo con la cravatta/ ti senti bene/ senza cravatta ti senti male/ molto permale/ qualcosa meno di nullità// Che gran guaio emozionale/ la tua crisi d’identità/ quando arriverà la sprezzatura/ notturna del pigiama/ e il tuo stile sarà un pesce d’aprile/ insostenibile/ ineludibile/ roso dal dubbio/ di correità…

Non tutto mi piace del libro, la necessità di pescare sempre copiosamente nel sacco dell’effervescenza porta talora ad avvitamenti o legnosità. Spesso peraltro dettate da una sempre meno controllabile indignazione almeno in chi, come l’Autore e lo scrivente, vede nel “passerottino nazionale” piuttosto un uselin de la comare o, toscaneggiando, un uccello padulo…
Alcuni potranno essere urtati da un certo animus derelinquendi verso la metrica, anche se non faranno a meno di notare le rispondenze rimarie ubique nella raccolta, nonché l’uso del quinario (singolo o doppio, talora sdrucciolo) nell’Indovinello interminabile di p. 64.
Spicca invece per delicatezza e pregiata fattura un pugno di poesie sparse lungo il libro, a formare un fil rouge in cui il poeta, dopo aver ironizzato sugli atteggiamenti modaioli, si riappacifica con la propria musa e i suoi seguaci più veri, accomunati dal febbrile e disincantato terrazzamento dell’imperfezione il cui impero apre, come abbiamo visto, la raccolta.
Come nella metafora calcistica della poesia Amore, a p. 102:

Chissà che un giorno o l’altro/ – una volta nella vita/ mi scappi, come nel football/ una poesia sporca,/ una di quelle cannonate alla viva il parroco/ a metà strada tra il tiro e il cross/ che azzeccano il sette per miracolo/ e incendiano la folla…// Cara assenza/ sfera di cuoio rovinosa/ che rimbalzi nella penna/ quando il gioco si fa duro/ e il foglio bianco è più bianco del solito,/ lascia una tantum la tua disperanza/ ad un telecomando che accenda il mondo/ sul mio unico golletto di rapina!

E senza dimenticare che si tratta di un gol della bandiera, il gol del poeta; perché, come ci ricorda Attolico jr. alle pp. 58-59:

…La tua poesia convincerà il cervello/ della gente/ ma il cazzotto addormenta senza perdita di tempo/ ti pare niente?