gli Esercizi vecchi e nuovi di Giovanna Bemporad

(Cultureel Gelderland, CC0, attraverso Wikimedia Commons)

Dico subito che l’importanza storica del libro Esercizi vecchi e nuovi di Giovanna Bemporad (Sossella, 2011) è straordinaria: troppo oblio si era creato intorno all’opera creativa di una delle più eminenti letterate e poete del novecento italiano. In particolare quell’amalgama di poesie originali e corpose traduzioni (dai testi sacri indiani fino ai moderni lirici tedeschi, passando per la classicità) che erano appunto gli “Esercizi”, dati alle stampe prima nel 1948 poi nel 1980, era confinato alle biblioteche, eccezion fatta per un’edizione delle sole poesie originali, uscita nel 2010 ma a tiratura limitatissima – praticamente una forma di cadeau per gli amici più cari.
Ora Luca Sossella e la curatrice Valentina Russi hanno convinto Bemporad a un nuovo imprimatur dell’opera poetica, presentandola appunto senza il corpus delle traduzioni, con in più alcune poesie degli ultimi anni. Ed esortandola a vincere la sua ritrosia, derivante da una concezione – con cui mi ritrovo abbastanza d’accordo, pur dovendo giocoforza pretermetterla a ogni nuova uscita – dello sforzo poetico come costante labor limae e della poesia come prova mai del tutto perfecta, sempre aperta a innumerevoli revisioni.

Le centoventi pagine del volume ci consegnano una poesia quasi completamente incardinata nell’endecasillabo. Del resto la ricerca della musicalità è forse il fulcro della poesia di Bemporad, cosa di cui m’ero accorto guardando alcuni video – disponibili su YouTube – della vecchia trasmissione “Poeti in gara” e definendola inter amicos una sorta di Kleiber poetico. Infatti proprio la padronanza ritmica, la gestualità “direttoriale” e quasi plasmante forma dal vuoto, la scelta della declamazione in luogo della lettura costituiscono la piena forza carismatica di Giovanna Bemporad e fatalmente, di fronte al libro, danno un senso d’orfanezza: in pochi altri poeti la lettura da parte dell’Autore appare così necessaria al testo stesso, che si atteggia quasi a partitura.
Peraltro, l’attenzione critica svela qualche ridondanza (es. la ripetizione di lemmi e immagini), qualche calco molto fedele, come nella Variazione su un tasto obbligato di p.16 – tasto evidentemente montaliano: “Non domare, implacabile, il mio riso/ mentre il fiore del melo incanutisce;/ non recidermi il filo dei pensieri…”; stesso dicasi per un senso di autentica comunione tematica e di stilemi, e prima ancora empatica, coi lirici greci (e con Leopardi, a sua volta adoratore degli antichi) che attraversa tutta la raccolta: principalmente la morte, la giovinezza trascorsa, lo struggersi per l’amata (una microsezione è chiamata “Saffiche”). Queste caratteristiche intimano al lettore di non sganciarsi mai del tutto, nel valutare le liriche, dal loro carattere di esercizi/ riflessione su materiale precostituito, dalla presenza – qui invisibile ma tangibile – di una massiccia opera di traduzione o confronto al loro fianco.
Pure, la portata di alcune poesie è notevolissima, e mi fa piacere riscontrare come le mie preferite si trovino tra le più tarde, a testimonianza che la tensione qualitativa, costante nella raccolta, non è decaduta col tempo.
Un libro quindi necessario e problematico, problematico e necessario, da cui vi propongo le mie due poesie preferite.