Cacofonia domestica (inediti 17-19)

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Richard Strauss ritratto da Max Liebermann, 1918, Berlin: Alte Nationalgalerie (Max Liebermann, CC BY-SA 4.0, attraverso Wikimedia Commons)

Pubblico una decina di poesie brevi tra quelle – tantissime – accumulate nell’ultimo triennio del Mondo di ieri (cit.). Erano state sottoposte, con qualche minima differenza, a una rivista a novembre scorso, senza riscontro.
Il titolo volutamente riecheggia (e – syn//kakós! – il primo verso contrasta con la dedica di) una nota composizione del signore qui sopra (anche lui parecchio ed egregiamente volto al passato), così come ritratto nel 1918 (manco a farlo apposta) da Max Liebermann.

UPDATE: in calce alla decina trovate anche un audio con la mia lettura (caso più unico che raro!)


Cacofonia domestica


I.
Non ho generato discendenze infelici
Da mettere in braccio ai miei genitori
Giusto per dirli fieri
Di me, per cui ho comprato loro un TV 4K.
All’alba, di nascosto, li ho visti carezzarlo.


II.
Si sente fino in camera, a uno stadio da qui,
Il mugghiare dell’onda agitata, il sabba nella notte
Di pieno ottobre, quando tutto è deserto.
L’angina del futuro, la promessa della fine
Urlata con franchezza per quei pochi.
Il mare affila i denti sui miei lobi
Mentre porto al cancello l’offerta votiva
Della frazione organica
A Cigno e Orsa maggiore. Offerta inutile.


III.
In fondo basterebbe che tu tornassi in forma,
Che affidassi a qualcuno il tuo puppy ruffiano,
Che un prozio parabolano si facesse deflagrare
Durante una riunione del tuo plenum familiare
In cui noi per puro caso ci trovassimo al mare;
Però senza intaccare
L’integrità dell’asse immobiliare, che mi serve.
Allora ti amerei senza riserve.


IV.
Muore un libro: fallisce il suo editore;
Scade il triennio senz’alcuna ristampa…
Oppure è nato morto, senza distribuzione,
Nemmeno vaccinato col deposito legale.
Come porsi dinanzi a questa perdita?
Come la suola a carrarmato, temo:
Accetta, calpestandole, la fine delle foglie.


V.
Ho ritrovato le teratospermie, gli abbozzi manoscritti
Delle prime poesie.
Ero un adolescente di trentaquattro anni*,
Partorito non antologizzabile,
Più languido di adesso,
Con in mano la lira
(Ma eravamo già entrambi fuori corso).


VI.
Moscerini in fervore, mentre fisso
Il crepuscolo umido e infiammato,
Saltano avanti agli occhi. Dentro gli occhi si annidano
Mosche (miodesopsie). Finché non so
Più distinguere i piani, tenere il mondo asciutto
Dall’ansia che tracima. La disperde,
Attirando lo sguardo, una zanzara che vorrebbe cavar sangue
Dal berretto dei Mets posato sul ginocchio,
Ignorando che anche quest’anno son andati assai meglio gli Yankees.


VII.
Faccio il bagno in autunno,
Sto simpatico a tutti,
Robi qua e Robi là:
Qualche marinaretta
Par che me la prometta!
Sono un divo del Forte…
Finché posso pagare,
Finché sono in arnese.
Poi mi rinnegherete.
Poi mi scavalcherete.


VIII.
Saremo, forse,
Scoperti a settant’anni dalla morte.
L’autoptico? Quella microeditoria
Che stampa solo titoli di pubblico dominio: prova orrore
Per l’esborso all’autore.
Vediamo dunque di arrivarci in forma,
Al settimo decennio dal decesso,
Per goderci la fama e le donzelle
Che apprezzeranno almeno il ritrovato rigor.


IX.
L’anno vecchio, sbattendo la porta,
Mi fa capire come la paura,
Tumore inoperabile ai geni di famiglia,
Divori ogni mia cosa, persino la poesia:
Un sigaro smorzato per errore
Nell’acqua piovana del sottovaso.


X.
Provo a scrivere un verso.
M’interrompe a gran voce: “I gusci delle cozze
Dove vanno? Nell’umido? Nell’indifferenziato?”

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2017, tranne 2018 (III.) e 2019 (X.)
* Nella poesia (V.), ho scoperto solo il 18 febbraio 2024, cioè sette anni dopo la stesura, di aver utilizzato inconsapevolmente questa locuzione praticamente identica (a parte l’anagrafe) a quella riferita a Henri-Pierre Roché, in occasione dell’uscita di Jules et Jim.