“Una storia strana e bella, affidata tutta alla parola”: le “Lettere dal mondo offeso” tra Luigi Di Ruscio e Christian Tito.

Non so se, come ricorre nel libro di cui sto per parlare, le persone si incontrino inspiegabilmente, per ragioni profonde. Normalmente sono portato, da materialista forse un po’ vigliacco ma convinto, a credere in un’arabescata casualità accompagnata casomai da una spiccata capacità di “retroilluminazione”, rimuginazione à rebours, propria delle menti più sensibili. Però le circostanze che hanno fatto finire questo volume tra le mie mani sono quantomeno curiose.
Eccovele in breve di cronaca.
Forte della considerazione che molti amici hanno per l’opera di Luigi Di Ruscio, affronto le sue Poesie Operaie, rimanendone almeno in alcuni passi fulminato; qualche giorno dopo, in una libreria del centro, conosco un “Tito” che fa divertire e riflettere leggendo Nori, Cavazzoni e altri; a distanza di ore mi chiede l’amicizia sui social Christian Tito, che quindi identifico col lettore. Tra noi prende vita una spiritosa e arricchente chat che lo porta a farmi pervenire copia del libro, tramite l’Editore Gianfranco Fabbri. Si scoprirà poi che il lettore di quella sera (anche valente fotografo) era Nicola Tito! Per alcuni mesi identificando i due, ringraziavo Christian per “la bella lettura” e commentavo il suo libro con Nicola, quando passava in zona libreria; entrambi cadevano dalle nuvole ed erano sul punto di digitare il 118. Insomma, La double vie de Tito, variazione di un famoso titolo cinematografico, foriera di due ottimi incontri in luogo di uno, e di molti frutti tra cui il potersi cimentare con questo libro edito da L’Arcolaio.
Fin qui il tragicomico sottoscritto; di séguito la parte più seria.


Le Lettere dal mondo offeso (L’arcolaio, 2013; scheda SBN; il titolo accenna a un passo di Vittorini, che a sua volta dà il nome a una libreria Milanese) ci portano ben dentro un’amicizia di penna tra un grande scrittore italiano, espatriato in Norvegia per lavoro (trentasette anni come operaio in una fabbrica di chiodi) e fondamentalmente escluso dal patrio Olimpo poetico fin quando le major non hanno cominciato a odorarne la morte imminente; e un giovane poeta, “farmartista” tarantino in ruolo alle Comunali di Milano, agli inizi della sua parabola di pater familias e di scrittura poetica; il Nostro, consigliato da un sapiente libraio, legge alcuni versi dell’espatriato e se ne innamora al punto di azzardare una lettera di complimenti.
I due si metteranno totalmente a nudo attraverso il proprio epistolario, progetteranno visite e intrecceranno iniziative; ma, principalmente per lo stato di salute di Di Ruscio, non si incontreranno mai.


Iniziamo da un dato certo: si tratta di un libro molto ricco, pieno di sostanza, prima di parlare del quale ho scelto di operare due letture.

E ho fatto bene: in un carteggio intercorso dall’ottobre 2009 al gennaio 2011 (appena un mese prima della morte di Di Ruscio) sono moltissime le sfumature, i dettagli, i polisensi, i micro-collegamenti tra le varie tematiche. S’inizia con le parole di sincera ammirazione di Christian e ben presto lo spontaneo affetto e la crescente fiducia portano a scoprirsi sempre più, e nel contempo a chiedere all’altro di dire di più di sé. Di Ruscio – veramente grandissimo poeta: più che magmatico, direi piroclastico per le sue improvvise e incontrollate accensioni – ripercorre le sue vicende letterarie, i suoi sbagli; squaderna i suoi mali e le sue necessità. Scopro in Di Ruscio, si parva licet, una personalità singolarmente simile alla mia (sarà che siamo entrambi acquariani; lui poi nato lo stesso giorno di Mozart, il 27 gennaio); per esempio nel ricorrente “imbarazzo” esistenziale e verso lo scrivere; nella spiccata ciclotimia testimoniata anche dalle parole della moglie Mary; nella conseguente “whitmaniana” contraddittorietà di alcune sue affermazioni poetiche; nel dover soffrire gli affettuosi inviti a piantarla con le poesie e “normalizzarsi”; in una certa ingenuità; nel litigioso fervore irreligioso; infine, apicalmente, nel pervicace “esporre tutte le pensate, anche le più oscene” – confessionalità, auto ed eterodirezionata (vedi anche il motto di Jens Bjørneboe: «Scrivi in modo che ogni cosa che scrivi possa venire usata contro di te»), in cui anch’io credo fermamente, a dispetto di chi mi vorrebbe integrato nel tessuto sociale conventicolare; al punto che quando sono costretto per motivi reddituali a non passare il segno la vedo come una sconfitta e un segno di vecchiaia.
Dal canto suo Christian, che nonostante la giovane età vanta già nel 2009 (lo si evince proprio dal suo mettersi a nudo) uno sguardo nitido su molti versanti dello scibile e del vissuto, è discepolo volontario, abile maieuta e perfino “trainer” quando prova a comporre – non solo nella corrispondenza ma anche verso il lettore – gli sconforti o gli estremismi temperamentali del poeta anziano che s’è scelto, con istintiva bravura e fortuna per il legame che ne è seguìto, a Maestro.
A questa capillare ricchezza, psicologica prima che artistica, si aggiungono altri strati: la suddivisione in capitoli almeno lato sensu “tematici”; la presenza, per ogni capitolo, di paragrafi scritti da Christian con funzione narrativa esplicativa e di collegamento; soprattutto la quantità di estratti dall’opera di Di Ruscio, il che mi ha fatto convenire su quanto Tito mi accennava, ossia che c’è molto di LDR da scoprire e amare anche fuori dalla scelta antologica delle Poesie operaie. Mi propongo, per esempio, di approfondire gli squarci tratti da L’ultima raccolta e dalle Memorie immaginarie.

Una pietanza provvidamente carica, dunque; oltretutto condita da una postfazione, quella di Sebastiano Tommaso Aglieco, in certi punti molto arguta, anche se sublimantesi in una visione alt(ezzos)a della poesia che, se non altro, non è certo in mood col personaggio de quo: si veda la tirata su “la differenza tra un vero poeta e uno che scrive poesie” – lontanissima (oltre che da Cioran) dal Di Ruscio di pagina 58: “… se la poesia ha uno scopo terapeutico, nel senso che uno scavando in sé trova momenti di liberazione, di catarsi, è giusto continuare a scrivere”.


Tornando al proprium di questo libro, così vitaminico, è giusto che io non riveli gli elementi che più mi hanno fatto riflettere, lasciando il piacere della scoperta al lettore che verrà.
Voglio invece concludere con un paio di interrogativi di portata più generale.
Intanto la funzione del libro: propedeutica o esplicativa? Meglio leggerlo prima o dopo l’approccio diretto con la poesia di Di Ruscio? Anche se la leggerezza stilistica e il taglio epistolare di questo volume non affaticano, io rimango fedele alla mia visione che è quella di non interporre nessun apparato (nemmeno diacronico) tra il lettore e la prima esperienza coi versi dello scrittore. Quindi procuratevi di leggere qualche raccolta di Di Ruscio (e anche di Tito) e solo dopo tuffatevi piacevolmente in queste lettere.
Poi: Aglieco, nella postfazione, parla a chiare lettere di “romanzo epistolare”; ovviamente lungo il libro – segnatamente ove si pubblicano le lettere in cui Tito ventila a Di Ruscio, che approva, la possibilità di raccogliere i passi più belli dell’epistolario (p. 175) – il termine non è mai usato.
In un’epoca critica in cui si tende a ricondurre tutto a romanzo, mi sono domandato a lungo se la categorizzazione fosse calzante, ed è forse questa la questione che mi ha spinto a rileggere il libro.
Stavo per propendere per la negativa in quanto l’intreccio tra i due personaggi – oltre la loro grande amicizia e una Erwärtung schoenberghiana o beckettiana o buzzatiana (scegliete voi) dell’incontro fisico, e oltre a quanto si sostanzia flebilmente nel titolo per Zona, nella poesia di Christian nelle pp. 114-118, e direi in tutto l’essere insieme del VI capitolo – non mi pareva uscire mai con forza al di fuori dallo schema di una maieutica bilaterale in cui due belle persone si affratellano e si confessano entro uno schema di “convergenze parallele” (“non mi piaceva molto il tuo titolo, ora è perfetto”: p.169).
Poi, rileggendo meglio, una sotto-chiave di lettura romanzesca l’ho trovata pure io (e Aglieco la coglie bene a p. 199): è l’opzione di poter leggere il libro come un romanzo storico sul ruolo del poeta nella società e la sua costante lotta per strapparsi dalle condizioni economiche in cui vive. Questa chiave è duale: diacronica nel passato di Luigi, la cui crisi economica emerge sin dalla prima lettera e assieme al quale soffriamo di un’empatia quasi somatizzantesi nel VII capitolo, il più autenticamente romanzesco di tutti; presente invece nell’attualità di Christian, che conia il letterariamente debole neologismo “farmartista” esprimendovi però una transazione forte e drammatica, ossia l’abdicazione all’idea dell’artista totale che tutti sperimentiamo, e che è divenuta normale, pacifica; pacifica come l’acquisto di copie dei propri libri di poesia da parte dell’autore (e qui Christian è legittimato a dire “chi è senza peccato…”); pacifica come scrivere nella propria biografia del risvolto di terza: “Caio, impiegato in una ditta di spurghi [o qualunque altra professione non pertinente], è alla sua quarta raccolta poetica”. Transazione sulla cui croce campeggia, in luogo dell’INRI, il resoconto editoriale delle 3 (tre) copie vendute dal libro Dirusciano.
Nel presente di Christian, che fa da valido contraltare al non troppo trattato tema della condizione operaia (dato che la scelta è stata di imperniare il libro più sull’amicizia nata e cresciuta tra i due), sta il minimum eligendum del poeta-uomo rispetto al passato sanguinosamente ingiusto e crudo di Luigi. Un passato-presente su cui si innestano, tramite il resoconto dei protagonisti, preziosi camei antropologici-zoologici come quello della rivenditrice-sciacallo, delle major-coccodrillo, e altri aspetti pienamente testimoni del nostro tempo.
Si termina il libro quasi schiumando, con Christian, per il dolore che suscita sempre vedere l’arte “offesa”, non riconosciuta in vita.

Questo e molto altro il libro vi riserverà, ribadendo da parte mia il consiglio di affrontarlo dopo l’impatto diretto con le poesie dei due Autori.


Nota biobibliografica: dopo Luigi, purtroppo anche Christian ci ha lasciato, a giugno 2018. Il lit-blog che ha cofondato, Perìgeion, ha una pagina a lui dedicata che si propone di indicizzare la bibliografia e tutte le risorse che lo riguardano. Per il volume delle Lettere dal mondo offeso con Di Ruscio (Forlì: L’arcolaio, 2013. EAN 978889592897), a questo link la scheda SBN.