Francesco Lorusso, L’ufficio del personale

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Sono grato a Giacomo Cerrai per essersi occupato sul suo sito Imperfetta ellisse de L’ufficio del personale di Francesco Lorusso: il suo contributo critico, assieme a qualche estratto, mi ha acceso una spia in testa.
Anticipo che la lettura e la conseguente rimuginazione – che ancora dura – hanno un po’ ridimensionato la portata di questa prova, che al primo assaggio mi dava forti segnali di poter essere perentoria, concretante un libro di poesia necessario, di quelli che non si limitano a un ruolo ornamentale di bel giardino, o alle gettonatissime “escrescenze del miocardio” (cit. Alessandro Di Nicola): un libro che, pur attraverso un vissuto, osa parlare di noi, della nostra società in trasformazione. In funesta trasformazione.

Intanto bisogna dire che c’è un profondo scarto, a mio modo di vedere, tra la prima sezione (eponima), e le successive due (Aria condizionata e Non è di maggio). Solo le ventisei poesie iniziali concretano il proprium che mi ha attratto; e non è coincidenza che la snella e ben condotta prefazione di Daniele Maria Pegorari s’imperni praticamente solo su estratti iniziali. Nei restanti due terzi la verve va scemando e, se non mancano interessanti spunti lessicali (l’occorrenza frequente di “precario”) o simbolici (il “mercato”, il rosso dei campi che riporta l’autore alle “bandiere scosse e ormai scordate”), la sensazione è che tutto si risolva in quadri di una quotidianità senza cambi di passo inventivi o in particolare critici verso il sistema.

È invece il dato lessicale, e quello che vi sta sotto, ciò che rende meritevole d’attenzione la sezione iniziale, L’ufficio del personale.
Già a partire dal titolo, ma soprattutto sin dai primi versi, si avverte come la poetica di Lorusso si concentri nell’utilizzare un gergo lavorativo (e segnatamente contabile) per descrivere sensazioni e riflessioni della sfera personale più profonda, quella in cui antropologicamente ci si domanda quale sia il proprio posto nel mondo, ex se (soggetti alla forza devastante e svilente di uno scenario recessivo e di un assetto lavorativo sempre più fordista – anche per i colletti bianchi, ove la catena di montaggio si cela sotto la maschera della specializzazione – e inumano, che “sfarina i giorni”,“trafigge gli anni” e crea “Inconvertibile la lotta tra gli eguali”) e anche in rapporto a quelli che sono i normali conseguimenti esistenziali, come un metter su famiglia vagheggiato a p. 15 e puntualmente vanificato dal “disavanzo” (cfr. p. 12) della propria vita.
È uno sforzo meritorio che guarda al di là dell’artificio retorico e stilistico, provando a descrivere un ganglio dell’epoca che stiamo vivendo.
Oggi infatti al divaricarsi della forbice reddituale, quindi allo sprofondamento verso “l’ultimo Stato” (p. 9) della classe media e medio-bassa, tipicamente micro-imprenditoriali o impiegatizie, cui soprattutto mi sembra che Lorusso intenda dar voce, si accompagna di frequente un senso di alienazione profonda e, per riflesso parossistico, una rappresentazione totalizzante del microcosmo lavorativo, tale da farlo diventare da un lato catalogo ermeneutico del macrocosmo esistenziale, dall’altro universo conchiuso, “determinato a far scudo sul sociale” (p. 10; o a volte a sostituirvisi: si pensi a quelle – agli occhi di chi scrive, terrificanti – pratiche di socializzazione forzata – picnic, corvée sportive etc. – all’interno delle grandi aziende). La costrizione diventa ri-costruzione, terraforming della realtà; questo ha una grande portata significante. Aggiungiamoci che al working class hero di casa nostra manca una voce potente come quella, per il mondo operaio, di Luigi Di Ruscio; il quale però ha sempre chiara la separazione tra lavoro (per quanto vampiresco questo possa essere) e sfera personale (per quanto traballante), senza quindi le zone grigie, di “confusione” in senso quasi giuridico, che sono proprie dell’espressività di Lorusso.
La poesia di Lorusso ha un retrogusto che mi pare di aver trovato, per fare esempi immediati, nelle liriche di Gabriel Del Sarto all’interno dell’opera a più voci La deriva del continente (Transeuropa, 2014); oppure, con portata più generale, nel poemetto Hjärta di Tommaso Labranca (snapshot dal sito visiogeist.com) ove il narratore si accorge che la coprotagonista è talmente assimilata nei nuovi paesaggi urbani (le desolanti buie architetture e illuminazioni dell’hinterland e, adiacenti, gli universi autoreferenziali dei centri commerciali) da farseli piacere senza più rimpiangere evasioni nella natura o altre evenienze più degne del nostro tempo libero.
Quindi la direzione è giusta. Il colore grigio pure: le paronomasie e metafore, pur distintamente avvertibili, non sono accese di violenza verbale né di slanci lirici; questo costringe a una meditazione ed elaborazione che è coerente coll’intento rappresentativo di un’esistenza alienata. C’è però un limite in una strisciante legnosità dell’espressione, sclerotizzata in un massiccio ricorrere al pronome relativo e, talvolta, in accostamenti troppo concedenti all’ermetismo, a scapito della nitidezza dello sviluppo.
Le poesie più riuscite, o al limite i frammenti all’interno di poesie che non conservano la stessa uniformità qualitativa, alternano la testimonianza di un fallimento collettivo alla commiserazione individuale o di coppia espressa in termini aziendali o tecnici. Oltre al manifesto quasi programmatico della poesia d’apertura, la felicità degli esiti va spesso ricercata in singoli versi, squarci; eccezion fatta per tre poesie davvero riuscite e paradigmatiche dello stile di Lorusso. Le propongo in coda a questo scritto, indicando come la seconda, nella sua brevità, sia quella dove massimamente si realizza l’identità scellerata tra uomo e sua produttività/ “funzione” economica, con una interessante ambiguità del termine “convenzione” tra contratto-propulsore economico e logora consuetudine esistenziale. Interessante anche rilevare come dall’incipit dell’ultima scaturisca una reminiscenza immediata e industriale della cigolante carrucola montaliana, poi convogliato dalla sensibilità poetica dell’Autore entro uno statement d’insensibilità-indifferenza che non pare lasciare adito a speranze.


Alla base dei nostri ordini gracidi
ci sono rami di salari amari
vite all’altezza solo dei loro disavanzi
per tutto l’acido del vino importato.

Conosciamo il nostro corpo in regola
dove da gocce di scadenze ignorate
si sono scolorite carte scolastiche
fra rientri di merce in magazzino
e un invenduto perduto tra gli annunci.

*

Sono solo il respiro di una convenzione
fautrice di un prodotto senza funzioni
una ricetta di contratti per finti caroselli
che muovono derive ringiovanite all’occasione,
ai pochi giochi antichi radicati nella pelle.

*

Singhiozza il rotore dal sommo del capannone
lasciando con la nenia la sua pena nella notte
proprio sul nostro arrivo chino di sonno,
che resta presente allo strazio della carne
nel rimbombo costante delle macchine

e non è mai lo stesso braccio di luce
che ci tende i successivi risvegli
adesso che sulla nostra pelle
non hanno più corpo le cose.


[Francesco Lorusso, L’ufficio del personale, pref. D.M. Pegorari, postf. V. Curci, Milano: La vita felice, 2014, pp. 74]