Claudia Maria Franchina, Il gioco uno a cinque del tamburo

A costo di sembrare eccessivo nella mia famigerata levitas – ma spero di riprendermi subito – non posso non aprire evidenziando come un titolo quale Il gioco uno a cinque del tamburo, terza opera in versi di Claudia Maria Franchina (Giuliano Ladolfi Editore, postfazione del Direttore di collana, Carlo Ragliani) non possa non riportare [almeno lo scrivente GenX] a una delle canzoni più note dei The Doors. Five to one, baby, one in five; benché Jim Morrison abbia sempre negato ogni valenza “politica” del verso iniziale, ne è stata più volte azzardata una qualche interpretazione in quel senso (a difesa della condizione dei giovani, o degli hippy, o degli afrodiscendenti). Bene: oggi sorrido – di quel sorriso spontaneo che mi provoca l’altrui acume – pensando a Claudia come una sorta di Agostina Dupin, investigatrice privata cui il “caso Doors” nemmeno interessa troppo, ma che ci rivela, alla stregua de La lettera rubata, come una plausibile interpretazione fosse proprio lì davanti ai nostri occhi. Il tamburo di una colt ha infatti sei slot, e giocare alla roulette russa si sostanzia proprio, a livello probabilistico, in quel “uno a cinque” preso, a specchio, anche nella canzone.
Oltretutto il secondo verso, stracitato, recita: No one here gets out alive. E questo a Franchina interessa eccome, perché la morte, declinata in rappresentazioni differenti, entra copiosamente in gioco nel libro. Ma il “gioco” del titolo non si esaurisce in essa e chiama in causa varie dramatis personæ e res, in continua interazione.


Bando alle divagazioni; ho davanti a me un libro estremamente maturo e affascinante sotto tutti gli aspetti: forma, struttura, tematiche, metatesto.
Come il titolo suggerisce, si tratta di un libro il cui senso è basato sulla accettazione di un rischio. La vita è vista proprio come una roulette russa: “sparare e sparire”; amare, morire, per decreto del fato ma anche per propria o altrui mano. Un libro “wagneriano”, se si vuole, nella misura in cui amore e morte sono la cifra indissolubile del Tristan und Isolde; similmente, amore e vuoto concretano la dialettica di questo libro. Amore e vuoto; tertium non datur che Franchina esperisce a metà volume, non molto dopo una sezione (“la regola”) fatta della sola poesia di p. 31 (creare una sezione a poesia unica è un catalizzatore della gnome, cioè del barlume sapienziale insito nella poesia stessa):

La sezione “d’amore e vuoto”, che costituisce tutta la seconda metà del libro, si apre con una quartina di elevato valore “macrotestuale”, programmatico. Non a caso, direi, è stata scelta per la copertina, ove appare in manoscritto autografo. Essa infatti, oltre a contenere in sé, come un nucleo, i titoli delle principali sezioni, sancisce una bipartizione spiegandoci che la regola cui siamo giunti più sopra si è sostanziata, dopo (grazie a) le peregrinazioni della prima parte. «Dunque è questa la regola», ora posso verificarlo; è questo quello in cui tutto confluisce e si tiene (p. 49):

Prima parte che vedo come una catabasi, una discesa, però tutto sommato felice, come nella immagine che chiude le Elegie duinesi: da una prima parte fatta soprattutto di stilemi antichi (la «musa primordiale»?), al tuffo “nel mondo” visto come qualcosa da vincere, fatto prevalentemente di incomunicabilità, violenza e morte; per poi sfociare, dicevo, in una quotidiana dialettica “d’amore e vuoto”, ove anche la morte (e con essa il mondo) rifluisce, ma con un più forte grado di accettazione («attendere a ogni scontro / il suo fatale»).

Questo mio tentativo interpretativo, spero decente, mi permette di apprezzare la cifra delle varie parti del libro. Che si apre con un retrogusto di secoli passati: la terza poesia sembra ammiccare, con rovesciamento del soggetto («Invocami»), ai poemi della classicità coi loro proemi votati alle forze divine, genitrici, creatrici (p. 14):

Segue un catalogo di mauditismi e simbolismi ottocenteschi, come pure di utilizzi dell’archetipo o della leggenda (i personaggi di Aracne e Ofelia; la leggenda del pettirosso). In questa galleria trovano un posto speciale alcune ecfrasi, ossia “omaggi” (come li chiama con modestia l’A.) a opere pittoriche: se la descrizione di The Cockcrow (1946) di Leonora Carrington si fa notare per la scelta metrica dei quinari giambici, mi ha colpito molto il lavoro in versi sopra una tela di Mosè Bianchi (1840-1904). Si tratta di un canonico sonetto (a quartine incrociate e terzine a specchio) che nella sostanza va oltre la stretta descrizione pittorica per espandersi in un volo immaginifico sul prima-attorno-dopo l’atto raffigurato della confessione {scolio: ero solito chiamare questo tipo di lavoro diafrasi o anche (meno propriamente per questo caso) metafrasi, proprio per distinguerlo dalla mera ecfrasi-descrizione, ma non ho l’autorità per – e mi è passata la voglia di – affermare la categoria}. A questo link possiamo soffermarci sul quadro (Margherita italiana, circa 1887, collezione privata), prima di affrontarne, qui sotto, lo svolgimento in poesia (p. 21):

Avuta la percezione de “la regola”, la Poeta – risolutamente, come un Siddhartha che esce dal paterno palazzo – scende dall’Elicona “nel mondo”, ove trova come anticipato esempi (di vari tipi di violenza, ma soprattutto) di morte, narrati sempre con sapienza drammatica e delicatezza. A pag. 36, per es., si intrecciano sensualità e morte, con sostanza noir e la notevole metafora di un allitterato “intreccio telefonico” che ricorda molto da vicino il climax drammatico de La voix humaine di Cocteau/Poulenc:

Come detto, l’intuizione copernicana de “la regola” e di ciò che la accompagna si invera e declina nella seconda metà del libro, “d’amore e vuoto” – in una dialettica di amore – di talamo ma anche filiale, sporco e puro (p. 53), impulsivo e riflessivo – e ancora di morte, dolorosa – la lenta sofferenza di una persona cara – eppure in qualche modo meno insensata, ricongiunta nel gioco dell’esistenza.
Lascio pressoché in toto a chi leggerà il piacere di godersi questa seconda metà del libro. Mi limito a evidenziare una sapiente simmetria tra la citazione di Anna Achmatova, posta in esergo al volume, e la poesia a p. 66 che mi pare ispirata dal famoso Ultimo brindisi della grande di Odessa (notare la originale figura – un mix di preterizione e cleuasmo! – sottolineata):

Il particolare della citazione mi permette, dopo avere accennato a strutture e temi del libro, di concludere trattando della forma. Anzitutto la metrica: leggendo il libro si nota agevolmente come l’A., senza snobbare all’occorrenza soluzioni sciolte o rastremate, sia versata in quello che Carlo Ragliani, in postfazione, indica come «formalismo canonico»: ho già detto sopra di sonetto e quinario, aggiungo padronanza dell’endecasillabo a maiore ma anche a minore, del novenario anfibraco “pascoliano” (tre trisillabi con battuta sulla mediana) e di altre strutture piuttosto distese della nostra tradizione. Tale “distensione”, considerando l’incedere sempre cólto, ha il pregio – assieme a scelte lessicali non eccessivamente arcaizzanti – di stemperare la dimensione criptica, “Sibillina”, dentro una musicalità che a mio parere agevola il coinvolgimento e può stimolare il sapere aude! ossia lo spirito ermeneutico del lettore.
Non mancano poi omoteleuti, allitterazioni e altre figure. Ma l’altro grande formalismo del libro, col quale concludo, è scientemente e strettamente cromatico: tutto il libro è incardinato sul rosso, vira attorno alle sue gradazioni floreali, frutticole, labiali, ematiche, virginali. Vi si aggiunge talora il metallico (argenteo o plumbeo), che gli è compagno nella dualità di carnalità e morte; come esemplificato, tornando un po’ indietro, in questa poesia di p. 36, in uscita della quale troviamo anche un biancazzurro “a contrasto”, di sole e di cielo:


[Claudia Maria FRANCHINA, Il gioco uno a cinque del tamburo, postfaz. C. Ragliani, Borgomanero: Giuliano Ladolfi Editore, 2024, pp. 76, EAN 9788866447177, ebook n/d]