Davide Lucantoni, Mem

Giuseppe Maria CRESPI, Le tre Parche. Bologna, Palazzo Pepoli Campogrande, soffitto della Sala dell’Olimpo. (Sailko, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons). Utilizzo per soli fini di studio, in ottemperanza al D.Lgs. 42/2004 (cd.”codice Urbani”).

Natura non facit saltus… poetae quandoque! – verrebbe da chiosare per Davide Lucantoni, poeta poco meno che trentenne, “scoperto” da Alessio Alessandrini che lo ha portato a pubblicare due raccolte nella sua collana Estuari presso Arcipelago Itaca Edizioni.
Ebbene, raramente ho avvertito un cambio di passo così pronunciato tra l’esordio (Eccesso di forma, 2018) e questo Mem di inizio 2021, in catalogo da pochissimo, di cui mi occupo oggi.
Il debutto lasciava trapelare buone qualità, ben portate a braccetto all’altare tipografico da una nutrita prefazione di Alessio; qui però, nel libro appena uscito, si è quasi soverchiati dalla padronanza dei temi e dalla complessità di svolgimento e rimandi, pur entro uno stile e un lessico sempre piacevolmente – e, direi, provvidenzialmente – distesi e piani.
Tanto è vero che non è semplice neppure scegliere da che punto iniziare l’analisi. Partirei, e perdonate se è un po’ scontato, dal titolo.

Invischiati come siamo nell’epoca dei meme, o memi, non è forse superfluo richiamare l’attenzione (l’A. scioglie il dubbio solo nel finale del libro) sul riferimento immediato, che è piuttosto la lettera mem, M dell’alfabeto ebraico. Consonante emme che nella cabalistica corrisponde al numero 40 (e le poesie della raccolta mi sembrano in effetti non 46 ma proprio 40, considerando quelle “asteriscate” come parti di un micropoema, o movimenti di una suite, se preferite).
Ma soprattutto, Mem nei tarocchi viene associata alla Morte. E proprio questa identità è confermata nella poesia dedicata all’arcano XIII. Non è affatto detto, peraltro, che alla riflessione dell’A. sia estranea la percezione del mortifero svuotamento social delle nostre individualità, e che su questo scarto di vocale meme/mem un po’ si giochi pure, ma non ho colto distintamente questo aspetto.

La morte, dicevamo. Tra le tante opzioni visive, essa può essere personificata (termine chiave della raccolta) con la mitologica parca Àtropo, che recide il filo della vita che le sorelle Cloto e Lachesi avevano tessuto e distribuito.
E proprio l’idea del filo, o meglio di una pluralità di fili che scorrono e si intrecciano, mi è sembrata subito una buona rappresentazione strutturale del volume.
Lungo il quale, se alcune poesie sono “a tema libero”, molte altre portano titoli ripetuti (Camerino, Comparse, L’uomo personificato, Portavoce, Segreteria) che si distinguono solo dal numero romano che li accompagna. Alcuni titoli viaggiano in ordine (Camerino I-II-III), altri a ritroso, altri senza un ordine; a un paio manca curiosamente l’episodio II.
A ciò si aggiungono nove poesie dedicate ad altrettanti arcani maggiori dei tarocchi.

A questa orizzontalità “per personaggi”, Lucantoni unisce un’ulteriore dimensione con cui l’interprete deve confrontarsi. Le cinque sezioni del libro, infatti, sono introdotte e scandite dalle strofe di una splendida poesia di Wallace Stevens, dal titolo Lebenweisheitspielerei; qui la potete leggere nella traduzione di Gianluca D’Andrea (con la sola avvertenza che non è quella adottata nel libro).
Ecco allora che l’interazione tra esergo e testi proposti conosce una spazialità e una intensità non comune.
Di norma, scrivente compreso, noi “sganciamo” uno o più eserghi in testa al libro (o a ogni capitolo), come fossero pidgeon drop, e finisce lì. Lucantoni, invece, conferisce alla citazione una permanenza poco consueta, facendo sì che ci accompagni lungo la lettura dell’intero volume, ed evidenziando così il possibile utilizzo ermeneutico della lirica riportata.
E non solo dei versi. Perfino il titolo della poesia di Stevens, che conglomera le idee di vita, sapienza e “gioco”, ci porta a considerare l’elemento mediano/di sintesi della conoscenza, come risultante tra esistenza e ludus; a sua volta, Spielerei è “gioco”, ma anche “scherzo” e anche “cosa di poco conto”…

…Per tacere della deriva teatrale (Schauspiel) del lemma, che ci riporta dritti ad alcuni titoli “di scena” già citati e a un tema forte della raccolta: quello pirandelliano e junghiano della persona come (anche etimologicamente, è noto) maschera, e della dissoluzione/frammentazione (specchi, vetrate) e alienazione dell’io, in fondo inconoscibile allo stesso soggetto poetante. La lezione di Vitangelo Moscarda si respira a fondo in queste pagine.

Attorno a questo vuoto, quasi necessariamente, campeggia un senso di sconfitta che si amplia in insignificanza: delle proprie esistenze (di attori o – in fondo, gli uni per gli altri – di comparse), dunque delle proprie individualità profonde (da mortificare ogni dì dietro la maschera), delle stesse parole/espressioni che pronunciamo macchinalmente, del rituale della retorica (cfr. p. 20) e della religione, alla pastoralità (ovvero autoproclamata capacità di salvazione) della quale non è risparmiata una memorabile stilettata a p. 62: “ichthys fuor d’acqua”, dove il Cristo, identificato mediante la sua iconografia acrostica, è bollato di evidente inadeguatezza, come “qualsiasi altro fallimento”.

Il reale stesso, in più passaggi, appare pienamente inconoscibile, come il più plastico noumeno kantiano.

Parrebbe l’ennesimo trionfo della morte e del nulla, però attenzione: mentre tutto crolla, anche al mietitore “sono cadute le mani” (riferimento virgiliano e manzoniano), e alla fine del processo “tutto ciò che era umano / ora invece è vivo” (p. 64). Non a caso proprio di mani mozze, alla pagina precedente, ci parla un altro esergo capitale, questa volta da John Ashbery: “Questa mano recisa significa la vita e vaghi pure quanto le piaccia”.

Trovo una possibile chiave di lettura dell’intera raccolta nella poesia dedicata all’arcano de Il Mondo, a p. 19. Mi sembra che la redenzione, per Lucantoni, passi attraverso uno “scetticismo cosmico” in cui deporre ogni velleità di ricerca di essenza o significato a qualsivoglia livello: “e lo senti, che non significa nulla, che / quindi non c’è altro da aggiungere”. Pertanto la vita deve essere presa esattamente per quello che è, semplicemente perché non c’è alternativa: “Tutto qui, pensi solo che in fondo / siamo venuti al mondo / senz’altro posto dove andare”. Ed è così, del resto, che anche l’ultima poesia del libro fa calare la tela: non c’è alternativa a uscire, ogni giorno, dal camerino. Col nostro strumentario fallace (sin dall’esse est loqui della poesia di apertura), destinati come siamo non certo a migliorare bensì probabilmente a ripetere vita natural durante lo stesso copione, gli stessi numeri, le stesse frustrazioni.
Già Dahui Zonggao ammoniva quasi un millennio fa: “La vita è così come la troviamo”. E anche il penultimo verso della citata poesia di Wallace Stevens sembra, su un piano relazionale, contenere il seme da cui questa bella raccolta si dirama.

In ultimo, e a rinfresco, un tris di poesie scelte puramente per la loro verve di scrittura: che vi invogli per davvero a comprare e leggere questo eccellente libro, a valle delle chiacchiere del recensore di turno.

*

XVIII. La Luna

Inchiodati ma non ancora in croce, qui
non si distingue lo schianto da una svolta;
fa talmente caldo che l’aria davanti
svirgola e sembra un muro ma è solo
la vista che assorbe dal nero qualche forma
di splendore, e non si abitua.

*

L’albero di design

(…) e almeno era già morto di suo, dice mia madre
mentre attacca la spina e la cancrena autunnale
si illumina al ritmo di non so quale battito. La vitalità
gli scorre tra i rami e va in metastasi fino a che
mentre si cena cede la colla a caldo e cade una pigna.

*

Il Portavoce I

Telefono a casa risponde mia nonna
e il pappagallo con la mia voce chiede Chi è,
io le dico Passamelo, anzi ora vengo lì.
Chiedo Permesso, apro la porta e saluto
e sempre la mia voce risponde Avanti,
e così alla fine entro.

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Davide LUCANTONI, Mem, Osimo: Arcipelago Itaca Edizioni, 2021, pp. 67, EAN 9791280139115, ebook n/d.