Terrence Malick, La vita nascosta

Il massiccio dello Scicilar (Schlern) visto da Castelrotto (Markko27, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons)

Credo che, con questo A Hidden Life, completato nel 2019, il regista texano Terrence Malick sia tornato alla magnificenza dei suoi tempi migliori, dimostrata fino a La sottile linea rossa (1998). Se Il mondo nuovo e Tree Of Life si mantenevano su ottimi livelli ma mostravano qualche ridondanza, le successive pellicole, tra l’altro sfornate a ritmi inconsueti rispetto al passato, avevano deluso. Se Song To Song, nel 2017, mi comunicava, personalmente, piccoli segni di ripresa; ecco, un biennio fa, il nuovo capolavoro.

La storia è quella del contadino austriaco Franz Jägerstätter, obiettore di coscienza al giuramento di fedeltà a Hitler, richiesto a chiunque fosse chiamato al servizio dopo l’annessione. Il protagonista difende il suo diritto di opporsi fino alle estreme conseguenze. Prima del precipitare degli eventi, Franz vive una vita semplice e felice, di duro lavoro e di idilliaco contatto con la natura, assieme alla moglie e alle figlie, nella alto-Austriaca montagna di St. Radegund (il film inizialmente doveva chiamarsi così). La sua è una vita nascosta in una duplice accezione. Una vita che all’inizio, nella sua inaccessibilità e frugalità, sembra sottrarsi al male del mondo — e in questo senso la Anschluss ne svela l’utopia, e ciò è restituito magistralmente dalla sceneggiatura, dal graduale propagarsi dell’odio emarginante nelle menti dei più semplici, financo dei bimbi. Ma, alla fine, è vita nascosta anche in quanto — lo ricorda l’explicit da George Eliot — è il rigore morale dei tanti eroi del quotidiano, fatalmente destinati alla rimozione da parte di una società incline al compromesso, dimenticati nei loro sepolcri, che fa sì che il mondo, faticosamente, resti un posto tollerabile.

Ora, Jägerstätter non è proprio un dimenticato, poiché il suo eroismo gli ha addirittura schiuso le porte della beatificazione, nel 2007. Ma questo dirompente particolare liturgico non è mai messo in rilievo nel film, neppure in coda. E ciò, assieme ad altri elementi, consente di dare una inquadratura più meditata all’aspetto religioso, da alcune recensioni esaltato e, vorrei dire, sbandierato con una veemenza, come al solito, fagocitante le altre sfumature umaniste, universali, preter- o pre-confessionali.
In alcuni suoi film, Terrence Malick apre diffusamente alla fede. La svolta che va da un atteggiamento panteistico esclusivo (se vogliamo, da Deus sive natura) ne La sottile linea rossa e in certe scene di Badlands, verso la trascendenza di Tree Of Life (ma anche nelle parole del sacerdote Javier Bardem in To The Wonder) è notevole.
Ora, qui, ci troviamo di fronte a un martire e fervente cattolico, autore di appassionate lettere alla moglie in cui esorta a restare uniti nella fede. Ma la componente religiosa prende una piega davvero egemone solo nella terza e ultima ora del film, con l’inizio del carcere duro; prima di ciò si parla piuttosto di una “giustizia” del proprio agire (o non-agire) che, ex se, è meta-religiosa e in astratto anche razionale.
Dall’altra parte, le gerarchie ecclesiastiche del film sono dipinte come impaurite, impotenti; e, in discorso indiretto, si racconta di preti che, i nazisti, “li dipingono come eroi o addirittura come santi”.


Dunque possiamo dire che la religione che interessa, e intensamente, a Malick è quella della gente semplice, dei lavoratori e dei curati di campagna (anche il prete Bardem lo era, di una piccola parrocchia dell’Oklahoma); quella del dei piccoli segni della croce in abscondito più che quella delle gerarchie, invischiate nei rapporti col potere.
E le ultime scene e dialoghi del film sembrano corroborare questa sensazione: i lavoratori contriti al rintocco della campana richiamano le splendide scene di preghiera dei mietitori ne I giorni del cielo. E Fani (Franziska), nel rimettere tutto il dolore e ogni spiegazione alla volontà dei piani alti, rientra nella ecumene di campagna, nel flusso del suo lavoro, in una curiosa coincidentia oppositorum — verrebbe da dire — tra fideismo e parole finali (quelle di Martino) del Candido voltairiano!

Su tutto — anche nel riferimento finale agli alberi (…della vita!) da frutto — sovrintende, come spesso in Malick, la meraviglia della Natura. Va detto che gli accenti stavolta sono più Leopardiani: in una lettera, il protagonista, accennando a giugno come al più bello e rigoglioso dei mesi, si lascia scappare che “la natura è indifferente alla sofferenza umana”. Rispetto ad altri film di Malick, essa è un po’ smimuita nella sua componente panica, a favore della Grazia; immutata, però, è la sua esaltazione scenica, per opera del movimento (o dalla stasi) di regia di Malick e del magistero fotografico e dei suoi collaboratori. Citiamo almeno il direttore della fotografia, Jörg Widmer.


Il film è stato girato per gran parte in Italia, in SudTirolo, e specialmente a Castelrotto, paesino con la pieve e le praterie dominate dallo spettacolare massiccio dello Scicliar (Schlern), che vedete in testa a questo post.

Giova al film una rinnovata freschezza dei dialoghi (più serrati e meno “estatici” del solito, almeno in versione italiana) e la presenza di due intensissimi protagonisti (Augustus Diehl e soprattutto Valerie Paschner); presenza corroborata dal duplice congedo (dalla scena e dalla vita) di un grandissimo (Bruno Ganz, il giudice nazista dagli occhi velati di lacrime, forse per il martirio che è costretto a comminare, forse per la raggiunta consapevolezza del proprio abisso cui non può più sottrarsi) come pure di un altro ottimo attore che ci ha lasciati subito dopo (Michael Nyqvist nella parte del vescovo “pilatesco”). Altri comprimari di livello, Tobias “Beethoven” Moretti e Jürgen Prochnow, danno ulteriore qualità.

Curata, come sempre, la sezione musicale, basata su molta classica (Bach, Dvorak, Schnittke, Gorecki, Pärt etc.).

Un Malick ai massimi (suoi e forse del cinema).