Le poesie di Giorgio Manganelli

Gustav Klimt, Tod und Leben (Morte e vita,1910/15), Vienna: Leopold Museum (Gustav Klimt, Public domain, attraverso Wikimedia Commons)

In questi giorni caldissimi, grazie al consiglio di un’amica, mi sono dilettato con le poesie di Giorgio Manganelli, edite nel 2006 da Crocetti con l’ottima cura di Daniele Piccini e una postfazione di Federico Francucci.
Il Manganelli poeta è una scoperta piuttosto recente, se rapportata alla sua conclamata produzione saggistica narrativa e così via. Io stesso ne avevo annotata solo qualche scheggia.
Quest’edizione quasi omnicomprensiva raccoglie le carte poetiche, ordinandole secondo un criterio non cronologico ma “di paternità”. Per prime vengono le poesie che furono da Manganelli “riconosciute” perché catalogate in indici; poi, in appendice, quelle coeve o correlate; tutta questa prima parte fa capo cronologicamente a metà anni Cinquanta. Si passa poi alla sezione delle “altre poesie” che raccoglie principalmente composizioni del triennio 1960-62, due anni prima dell’uscita di Hilarotragoedia; l’ottobre del 1962 segna il termine definitivo e mai più disatteso dell’esperienza poetica manganelliana. Alla fine del volume stanno, con una sorta di movimento circolare, le poesie giovanili (attorno al ’45).

Di fronte alle poesie di Manganelli gli intervenienti nel volume sono d’accordo, con parole diverse, nel riconoscere un’importanza non a sé stante ma propedeutica alla produzione letteraria.
La mia sensazione di lettura è contraddittoria: queste poesie mi sembrano trasudare inesperienza ma hanno anche molta consapevolezza di sé. Sbaglierebbe chi leggesse in questi versi, almeno in quelli della prima sezione, qualcosa di improvvisato e non corretto: le revisioni per alcune poesie giungono a essere anche quattro, a testimonianza del fatto che il labor limae è intervenuto eccome.
In certe parti ci sono anche molti richiami eruditi, linguistici e culturali; ma questa erudizione non si traduce mai in perdita di spontaneità (con l’eccezione forse dell’Ode pour l’élection de son sépulchre), anzi la voce di Manganelli si avverte sempre con forza.
Spicca inoltre una perentoria ricchezza lemmatica, trasversale in tutta la raccolta, e ovviamente preparatoria del mirabolante stile manganelliano della maturità.
Da dove deriva quindi la mia sensazione di non totale riuscita?

Sposo la tesi espressa da Francucci: il problema sta “nell’ospitalità che le poesie garantiscono ancora a un io piuttosto ingombrante”. Questo determina un urgenza del dire e del dirsi che non viene adeguatamente filtrata in uno schema poetico all’altezza, e apporta una certa legnosità, singoli versi anemici proprio perché retoricamente funzionali, come “e mi distinguo”, “poi chiedo in prestito”, etc. Oppure parole in maiuscolo (NON; ESTREMAMENTE; DIFFICILE). Insomma quasi sempre si trasgredisce il dettato verlainiano di torcere il collo all’eloquenza.
Se poi si aggiunge che il leitmotiv, almeno nelle sezioni più importanti, è ancora marcatamente ottocentesco o protonovecentesco – Dio, inferno, morte, sesso, donna amata; ma anche decadimento, inesistenza: “il mio collocarmi/ nella dimensione dello zero”, p. 43 – si comprende come il quadro necessitasse ariosità e malleabilità in alternanza a una densità oltremodo liquorosa.

Se quanto sopra è vero in linea generale, va invece apprezzato criticamente il diametrale cambio stilistico che interviene quando si passa dal Manganelli intimista alla sezione “altre poesie”, quelle definite “sperimentali” (io le definirei “del periodo isterico”, prendendo a prestito il titolo di alcune di loro).
Anche nelle poesie dei Sessanta rimane il problema di un io debordante che stavolta, quasi amante tradito, inverte il suo atteggiamento in un ostinato d’ira nei confronti del buon costume e soprattutto di Dio: col primo si cerca lo scontro aperto attraverso il gusto per la volgarità (il culmine provocatorio è nei “Dolori amorosi”, in rima, forse sulla scia dell’Aretino), per il resoconto della secrezione, per l’os-sess-ione (p. 129: “iride – IRIZZIAMOCI”), per il nefastum in genere; il secondo da Nume che era diviene, per usare uno dei passi migliori e più tenui (sic) “il vecchio questurino dell’universo (…) il celerino del niente/ che piomba alle tue spalle mentre chiavi/ e ti dice: È peccato”, da uccidere e mitragliare senza indugio (pp. 188-9).
La sovversione è ossessiva, è vero, a ritmi da sindrome di Tourette; e anche qui ci sono cadute di tono (“mi disciolgo in un gatto universale”); ma paradossalmente la sperimentazione è a mio giudizio vivificante, agisce come valvola di pressione rispetto alla pesantezza dei temi che abbiamo elencato in precedenza. E proprio il sostenimento dell’attenzione dà modo di apprezzare al meglio le venature, le scintille, gli stilemi che qua e là affiorano: echi futuristi (p. 134: “io esigo un rombo/ di motori omicidi”), incedere in litanie muliebri alla maniera di Neruda, sferzate morali (p. 126: “E poi l’Italiano è un popolo canoro/ ha una dote naturale/ e l’odio della vita/ gli esce in piscia e melodia”); persino un richiamo cromatico quasi rimbaudiano che costituisce l’ossatura della poesia di p. 188. Soprattutto, in molti passi, una marcata sensibilità per l’allitterazione in cui mi pare di sentire consonanza con le mie letture di Sanguineti (Manganelli adreirà al Gruppo 63, anche se per alcuni senza troppa convinzione).

Nel complesso, sottolineando da una parte una singola poesia felice senza riserve – l’ultima, quella “da Stephen Hawes” che tocca corde alla Larkin:

e dall’altra espungendo in blocco la sezione di coda delle poesie giovanili che trovo tutte trascurabili, la sensazione di lettura è quella di un’opera discontinua e in più di un punto stucchevole, falsamente trascurata (spesso molto levigata), ma che al suo interno non è priva di momenti felici. Momenti che non le danno certo continuità e “passo”, ma che possono ritenersi apprezzabili.
Una sensazione, la mia, metaforizzata in modo incredibilmente fedele dalla lirica a p. 84: “Come la squallida sgualdrina/ simula il ritmo dell’amore/ e ritrova con callida retorica/ il gesto passionale:/ scavando nel grembo saccheggiato/ subitamente trova un gesto impreveduto,/ un dialogo intatto, un abbandono”.
Queste scintille imprevedute possono essere ravvisate nel Manganelli intimista o in quello iconoclasta, a seconda della sensibilità di ognuno. A sé, come elemento di transizione e fusione, stanno le prime due strofe a p. 96, in cui i due fronti atmosferici si incontrano, originando un mirabile e schietto “bipolarismo” che è quasi un compendio:

Un anno fa, a questa
fermata d’autobus
io piansi lacrime di sangue.

Tanto poté la denegata fregna
angustiare l’adiposo infante!

[Giorgio Manganelli, Poesie, a cura e con un saggio di Daniele Piccini, postfazione di Federico Francucci, Milano: Crocetti Editore, 2006, pp. 350]