“La lingua lastricata di stazioni di carne”: su “Metro C” di Alessandro De Santis

I lavori presso Porta Maggiore nel 2009 (User:Mattes, CC BY-SA 3.0, attraverso Wikimedia Commons)

Conosco poco e male Roma, lo ammetto. Così alla prima lettura di Metro C (Manni, 2013), seconda prova di Alessandro De Santis, mi aspettavo un viaggio battistipanelliano (La metro eccetera), strictly underground tra mezzi meccanici varia umanità e nomi delle fermate che danno il titolo alle poesie. Per fortuna mi sono un po’ documentato e ho chattato con Giorgia la quale mi ha confermato che, mentre scrivo, la linea C non è ancora operativa e aleggia un certo pessimismo sull’an quando et quomodo [edit: per fortuna il primo tratto è stato aperto di lì a poco, il 9/11/2014].
Evidente dunque come De Santis abbia intrapreso un viaggio virtuale, ma solo nel senso di “senza binari”; per il resto reale, on the road, libero, simile ma allo stesso tempo ben distinto dalla passeggiata dello Zeichen di Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, perché rivolto non direttamente alle rovine architettoniche (antiche o moderne) ma a quelle umane.
In breve, una finzione di non-luogo (tipicamente, il mezzo di trasporto e i suoi terminali) presa a pretesto per un’indagine antropologica quasi del tutto indipendente dal non-luogo stesso (basata piuttosto sullo spazio che circonda i lavori, come il parco dei Giardinetti). Del resto gli orari sconnessi delle osservazioni lo lasciavano prevedere, assieme alle descrizioni e pensieri in libertà che aleggiano loro accanto.

Qualcosa di più ampio di un tragitto, dunque. E a ben vedere tutte e tre le sezioni della raccolta ricevono, nella loro titolazione, un senso più esteso di quello “tecnico”: i Carotaggi d’apertura, entrambi ben riusciti, son soprattutto scavi interiori, assaggi; affacci su una triste umanità sferzata da una pioggia che mai non resta, osservata dalla «bara rosso brillante» di una casa o di un’auto; oppure, nel secondo caso, giudizi bipolari sulla im/probabilità di una exit strategy.
All’opposto, cioè alla fine del volumetto, la Destinazione dei Giuochi Istmici è l’unico momento in cui si svela, nel pessimismo predittivo, una sorta di critica “politica” al meccanismo metropolitano che non è solo procedimento amministrativo ma attiene a una qualche filosofia di vita, quasi compiaciuta dell’irrealizzazione.
Ne può essere rispondenza il fatto che, mentre scrivo questa nota e dunque a distanza di non più di un anno dall’imprimatur, non vedo più la fermata Giuochi Istmici tra quelle in costruzione…

In mezzo viene il grosso del libro, cioè le Fermate: perlustrazioni di luoghi in attesa di essere non-luoghi, ma asettici e ancillari, avendo attributi se non quello di essere palcoscenico per persone ai margini, spesso ma non sempre chiamate per nome. Proprio come espresso dal verso che ho rubato al libro per il titolo di questa nota. Una lingua lastricata che inventa stazioni meditative (non a caso Lorenzo Mari ha tirato in ballo la Via Crucis); stazioni di carne di stampo hikmetiano: prima di tutto ama l’uomo, e primo tra gli uomini l’escluso, oggetto – per esempio – di strale benpensante nei due versi di chiusa a Grotta Celoni

Il rumeno è biondo e ha
le ossa grosse, lo si sa
questo però è magro, smunto,
il viso pigiato sulle cosce
La postura è quella di una tagliola
i jeans puliti, azzurro chiaro
con punti di varechina sugli stinchi
le sue mani scarnite sembrano una carta
fisica colore di pianura,
solcata da vene nette come fiumi
La sua assenza stringe il cuore:
è qui e altrove,
senza requie .
In strada, che vada in strada,
sangue d’un cane.

Se una critica può essere mossa al viaggio di De Santis è quella espressa (nello spazio commenti sotto la citata nota di Lorenzo Mari) da Giacomo Cerrai, cioè di non essere abbastanza cattivo, acido, tagliente nel descrivere, al di là dell’ovvia empatia, l’ingiustizia sociale che dipinge ogni singola fermata, permea ogni protagonista. È, a ben guardare, il rovescio della medaglia rispetto al modus vivendi un po’ ecumenico descritto in testa («Non c’è più tempo per l’odio»), in coda («Si scava verso un fondo / che fondo non è mai» ) o nell’unico punto calzante della prefazione, per il resto piuttosto indeterminata, di Aurelio Picca: un’eternità dove si aspettano e abbracciano sereni flagellati e flagellanti . Ahinoi poveri agnostici.
In codesto territorio circense (sempre Picca; e al circo non si va per far parte bensì per osservare) il giudizio scocca, ma alquanto tenue e breve: «si gioca a fare i ricchi» per l’anziana in balia della badante; i matti dicono la verità; «ci si dovrebbe vergognare». Bene, ma forse ci dovrebbe essere anche tempo e parola d’odio per la controparte, per i flagellanti appunto. E quando si sentenzia (Oslavia) che il mondo non finirà non con un cataclisma né con una risata ma con una morte individuale (che dunque, moltiplicata, realizza l’escatologico quadretto di Picca), viene in mente un verso, a me molto caro, di Pasolini: la rassegnazione non ha nulla da invidiare all’eroismo. Frase che occorrerebbe superare quando si sfocia nel civico, ma non sempre è facile. Ci si prova solo, ma con voce fioca, a Fontana Candida:

Gli occhi di Rachid sono
neri come il bitume
brulicano intenzioni
Vorrebbe piantarti un coltello nell’orecchio
o solo chiederti se ti serve qualcosa
offrirti della sambuca che ti bruci la gola
Ma tu vuoi una postazione internet
un occhio miotico sul mondo
Pigi i tasti nero fondente in progressione
e senti i canti del Ramadam [sic] salire su da youtube
come l’acqua per la pasta quando bolle.

Dal punto di vista formale, e per concludere, le poesie sono portate al lettore con naturalezza, in metro libero e sciolto, con un vocabolario quotidiano. Se talora si sfiora la prosa, altre volte ci si ricompone mirabilmente in un equilibrio che per esempio è proprio delle fermate Alessandrino (io qui non avrei resistito a scrivere in verso alessandrino, cioè in doppio settenario!) e Torre Maura.
In un caso il combinato stilistico e sociale è notevole: presso la Tomba di Nerone dove, se si eccettua il primo verso (che si poteva risolvere dialettalmente in: “Ar Monte de li pegni”, guadagnando una sillaba!), si scorre leggeri e disperati in settenario

Al monte dei pegni
la fila esce dal muro
la conta non ha primi
ma ultimi a decine
Si passa per la porta
nel chiuso, uno alla volta
ciascuno col suo groppo
ciascuno il suo rancore
e Walter con la polo
macchiata di sudore.

Quest’ultima è la poesia che preferisco in una raccolta che vola molto alta nelle intenzioni; non sempre qualitativamente coerente nella sua realizzazione, ma sicuramente situata su un piano prospettico interessante e meritevole di lettura e riflessiva “fermata”.