L’infanzia del compositore, gli esordi del recensore: Martinů e Whyte.

Adesivo “Anno della musica Ceca, 1974” (Richtr Jan, CC BY-SA 4.0, attraverso Wikimedia Commons)

In questo mio spazio ho fatto confluire diversi lustri di scritture. Quelle a tema musicale, retaggio di un’epoca in cui frequentavo assiduamente gli eventi fiorentini, sono scaturite qualche anno prima di quelle relative alla poesia. Un pezzo che ho ritenuto di riproporvi è questo lungo reportage di un pomeriggio di studi all’Istituto Francese di Firenze (Palazzo Lenzi, piazza Ognissanti), tenutosi il 18 novembre 2004. Il compositore messo sotto la lente, Bohuslav Martinů, non è certo tra i più frequentati; oltre a questo, il mio pezzo mi testimonia l’entusiasmo che allora avevo per la città, la sua scena culturale, la voglia di incontrare persone di valore (in questo frangente, oltretutto, cordialissime) e scambiare le proprie vedute; infine la voglia di scriverne, magari con poca competenza ma con grande passione…

Ho mantenuto la datazione originale dell’articolo, ossia qualche giorno dopo l’evento. Ma oltre al resoconto, se avrete l’abnegazione di leggere in fondo, farò un salto di diversi anni e vi narrerò di come ho ritrovato la figura di Martinů in uno stranissimo ed “esoticoincrocio poetico.
Intanto, buona lettura.


Mi trovo finalmente a riassumere le mie impressioni sulla giornata di studio di giovedì scorso, presso l’Istituto Francese di Firenze. Giornata dedicata al compositore ceco Bohuslav Martinů, con una conferenza e poi un concerto. La conferenza del Maestro Aleš Březina, direttore dell'Istituto Martinů di Praga, ha avuto il pregio di riassumere con efficacia l'intera parabola esistenziale e creativa di questo compositore. Il successivo concerto ci ha presentato alcune delle più importanti composizioni cameristiche di Martinů, assieme ad un lavoro di Albert Roussel, che rappresentò il colpo di fulmine artistico per il ceco, ed il cui ascolto segnò una direttrice del suo futuro stile. 

Iniziamo dagli appunti della lectio del M. Březina: quali sono gli elementi formanti dello stile di Martinů? In primo luogo, autoapprendimento e asistematicità - sospinto ed incitato verso una carriera solistica, Martinů rifugge gli inquadramenti del conservatorio e lo studio del singolo strumento in favore della composizione; viene bocciato dopo un biennio causa "indisciplina". Da quel momento in poi impara componendo, apprendendo da se stesso e dalle personali scoperte, autoalimentando la sua tecnica con le proprie partiture. Poi, nomadismo ed eclettismo - Il Nostro prende ben presto a viaggiare; prima con gli orchestrali, per intuizione del più grande direttore ceco, Václav Talich (che, con lungimiranza, voleva sempre un compositore nell'orchestra, onde favorire l'osmosi tra creazione e tecnica di esecuzione); poi per il colpo di fulmine rousseliano di cui parlavo sopra, che lo porta a Parigi. Sarà poi solo brevemente in patria, approdando negli USA (dai quali poi verrà naturalizzato). Dopo il conflitto mondiale, si allontanerà tanto dagli Stati Uniti, dominati dal clima di guerra fredda, quanto dalla Patria, pervasa dall'ottusa burocrazia comunista: dimorerà in Italia Francia e soprattutto in Svizzera, ove morirà nel 1959. Tutto questo peregrinare, sospinto anche dalla fervida volontà di imparare, farà di lui un compositore impossibile da inquadrare e soprattutto attento ad assimilare ogni elemento (folcloristico o meno) nei propri schemi, a digerirlo, a fonderlo con tutti gli altri elementi del suo stile. L’elaborazione musicale sfocia così in un processo produttivo con pochi eguali nella storia del Novecento  - Martinů scrive più di 400 opere, anche se circa 150 – a giudizio degli studiosi – presentano un livello qualitativo minore. 

Gli esempi musicali presentati lungo la conferenza ci hanno dato un’idea soprattutto del Martinů sinfonista ed operista.
La revue de cuisine (1927) è una composizione del primo periodo Parigino (approda sulle rive della Senna nell'ottobre 1923). Opera "iconoclasta col sorriso", pienamente in spirito Satie e soprattutto coerente con le tematiche ed i programmi del Gruppo dei Sei, di cui Martinů sarà sempre considerato un elemento di pari dignità, una sorta di “D'Artagnan ceco”. La suite narra la vicenda di alcuni utensili animati e sentimentalmente in competizione - il “tango della pentola abbandonata”, per esempio, irride il Bolero di Ravel come feticcio della grandeur musicale da abbattere; se nelle primissime battute si scorgono echi dell'incipit della Prima sinfonia di Mahler, linguaggio e stile sono compiutamente influenzati da Stravinskij, segnatamente quello dell'Histoire du soldat: citazioni, accenti ritmici ostinati - con in più quella matrice che a mio parere è uno dei maggiori elementi di interesse verso questo compositore: la grande maestria nel trattare il singolo strumento, che già qui si aggiunge e si dispiega distintamente pur se in rapporto all'insieme. Coi Tre ricercari (1938, composti per la Biennale di Venezia) Martinů riprende soprattutto il senso lato (e non “acrostico” come nell'Offerta musicale di Bach) della parola ricercar, intesa atecnicamente come sperimentazione e non come rigorosa arte canonica; rimane comunque, nel primo dei tre, un innervamento fugato dell'impianto. Si conferma la grande passione di Martinů per la "musica da camera in veste orchestrale".
Alla commissione di Paul Sacher e della sua orchestra d'archi (cui bisognerebbe erigere un monumento al merito, ricordando anche i capolavori di Bartók, Divertimento per archi Musica per archi, percussioni e celesta, anche essi commissionati da Sacher) dobbiamo lo splendido Doppio concerto per due orchestre d'archi, pianoforte e timpani (1938) - pagina in grado di reggere il confronto coi capolavori del primo novecento, e segnatamente con la sopra citata musica bartokiana; musica in cui si sente quasi fisicamente, in un clima talvolta intimo talvolta espressionista, sempre inquietante, l'incombere del conflitto mondiale.
Il periodo americano inizia nel 1941 ed è dominato dalle sinfonie, dal marcato gusto "internazionale" - quasi una sorta di adesione per cavalleria al costume musicale dei propri ospiti - e caratterizzate dalla esasperazione del cromatismo. La Prima sinfonia fu commissionata da Serge Koussevitsky con la Boston Symphony; la Quarta sinfonia invece fu scritta in occasione dello sbarco in Normandia.
Dell'ultima fase della parabola artistica e terrena di Martinů, quella europea, oltre a citare l'opera Passione Greca, abbiamo ascoltato frammenti audio-video di Mirandolina (in italiano! sul testo de La  Locandiera) e Ariadne. La prima, oltre a stupire per la padronanza della parola italiana e del suo spirito, muove a simpatia per le buffe caratterizzazioni; la seconda, dalla scrittura modellata sul registro di voce della Callas e concepita come espresso omaggio alla vocalità madrigalistica monteverdiana, lascia semplicemente sbalorditi ed incantati per la tessitura cristallina. 

Veniamo alle note matiteggiate a fianco del concerto cameristico, che ha visto sul palcoscenico tre affiatati e solidi interpreti: Leonora Baldelli (pianoforte), Valeria Brunelli (violoncello) e Paolo Zampini (flauto). Il concerto, come dicevo, proponeva quattro composizioni di Martinů e una di Roussel (Joueurs de Flute) sulla quale non mi soffermo per non perdere il filo della trattazione monografica: una partitura equilibrata, misurata, che fa comprendere ciò che Martinů vedeva nei francesi, ma si tratta pur sempre di una base cui il compositore ha aggiunto molto di suo.
Dei brani proposti, mi ha destato il maggiore interesse l’iniziale Sonata per flauto e pianoforte - composizione datata 1945 che, oltre a essere di alto livello qualitativo, sussume molte delle tematiche “caratteriali” (più ancora che caratteristiche) di Martinů. Vi è infatti una ricercata contrapposizione tensiva - quasi ciclotimica - tra andamento piano e convulso; la ritroviamo non solo nello sviluppo del materiale tematico ma anche tra i due strumenti, antagonisti che competono in un gioco al rilancio - vinto, (anche per il piglio molto energico di Baldelli, la cui interpretazione asseconda queste impressioni di scrittura), dal pianoforte, che porta il flauto su brevi consonanze per poi sovrastarlo. Almeno nel primo movimento, nonché in parte dei due successivi, si ha la sensazione che la mano destra spesso voglia spingersi oltre il confine della tastiera, oltre le possibilità dello strumento... questo senso di esasperazione è forse l'unico aspetto per me problematico della Sonata; ma al tempo stesso la rende più viva e vitale di molte pagine più elaborate – quali, per esempio, gli stessi Trio per flauto, violoncello e pianoforte (pur ben eseguito dai tre solisti) e Scherzo per flauto e pianoforte.
Altra pagina importante è il ciclo di danze Borova per pianoforte solista. Questa pagina permette di rispondere e di "comprendere" (volutamente virgolettato) quello che per anni fu - credo, avendone parlato anche col M. Březina dopo la conferenza - il maggiore fattore di ostracismo nei confronti della musica di Martinů, quello che ce lo rende ancora così poco conosciuto, anche in rapporto a suoi connazionali, come Leoš Janáček. Nel secondo novecento, verosimilmente, si snobbava la musica di Martinů per due motivi principali: l'impianto tonale e la assenza di interesse per i temi popolari e nazionali, se comparata a Janáček e Dvořák; in area Carpazi - Bartók, Kodály, che notoriamente vi facevano ricerca e ricorso.
Mentre la prima circostanza è vera, ma il giudizio negativo è smentito dalla ultimissima storia della musica, che ci mostra frequenti tendenze tonali nei nuovi compositori, la seconda è assolutamente un preconcetto. Ascoltando questo ciclo di danze ne abbiamo la riprova: si tratta di un progetto del tutto accostabile alle Danze popolari rumene di Bartók. Il soggetto popolare si evince anche dal titolo, che fa riferimento al villaggio d'origine del padrino di Martinů, che per primo lo portò a conoscenza di canzoni ed inni tradizionali. Anche il contenuto è in linea: echi dell'Allegro barbaro e del Primo concerto per pianoforte di Bartók sono qua e là presenti; persino - nel secondo brano - l'inizio della Sesta sonata per pianoforte di Prokofiev. Martinů propone suoni dalla sua terra in molte proprie composizioni, non solo in Borova. I suoi "limiti", che sono limiti non suoi, ma di chi lo ha ostracizzato, stanno nel fatto (e corrispettivamente nel non avere compreso il fatto) che la tradizione è da lui trattata non come un valore superiore, un dato intoccabile, ma come una parte del tutto, suscettibile di essere ricercata - per usare il termine di cui sopra - indagata, trasformata, assimilata, plasmata come creta.
Allo stesso modo - rispetto allo stesso Bartók, per esempio - l'aver lavorato prevalentemente sulla tonalità anziché su modi dorici, lidi etc. può essere stato un fattore di minor percezione del suo pur concreto interesse verso la tradizione popolare.
Queste considerazioni valgono anche come giudizio di chiusura: siamo di fronte a un grande compositore, troppo poco conosciuto rispetto alla sua qualità musicale, oggetto di forti pregiudizi per il suo eclettismo e per la estraneità (peraltro mai acritica) alle tendenze. Occorre riscoprirlo e dargli il meritato peso.

Fin qui i miei appunti del 2004. Ora, seguitemi in un salto di ben dodici anni… Siamo nel 2016; come ogni mese mi reco alla mia edicola di fiducia per comprare Poesia di Crocetti, e vi trovo le poesie di un poeta scozzese, Christopher Whyte, nella traduzione di Marco Fazzini. Nativo di Glasgow (ma residente a Budapest), Whyte scrive poesie in gaelico scozzese e ha collaborato anche con Fazzini a questa versione italiana. Le poesie sono belle, due in particolare; quella che mi fa scattare qualcosa in testa è L’infanzia del compositore (Leanabachd a’ cho-gleusaiche). La trascrivo subito sul mio taccuino, e lo rifaccio qui e ora per voi:


L’INFANZIA DEL COMPOSITORE

Il padre, che non aveva successo negli affari,
si trovò un lavoro come guardiano del paese:
doveva lanciare un avvertimento se un incendio

fosse divampato rischiando di diffondersi,
tale da distruggere l’intero vicinato.
Con la sua giovane moglie andarono a vivere

nella torre della chiesa, separati dal terreno
lontano da duecentoventisette scalini,
senza altri vicini che la campana enorme, chiassosa

che era compito del padre tenere in ordine.
Nato lassù, il compositore trascorse i primi anni
come un uccellino nel nido, che non imparava

a volare. Fin quasi all’adolescenza
non si azzardò a scendere tutti quei gradini.
In altri momenti si sentiva come un gigante,

giacché il mondo al quale non era del tutto convinto
di appartenere gli appariva incredibilmente piccolo.
Le persone altro non erano che minuscole macchie

dai colori a volte disparati, correndo qua e là,
che nei giorni di mercato si riunivano in disegni
(soleva riflettere molti anni più tardi, quando fu

uomo cresciuto) che assomigliavano
alle note che riuniva e sparpagliava
sulle cinque righe di un pentagramma. Faceva

sogni incredibili. Una notte sognò che il campanile
era la gamba d’un gigante che iniziava a camminare
dalla brughiera verso le montagne. La campana

e le scale erano le fibbie delle sue scarpe,
e continuavano a tinnire e a risuonare. Un’altra notte
immaginò che la torre fosse la lingua della campana.

Era ancorata al terreno, eppure come in un terremoto
oscillava avanti e indietro, a ritmo violento
e irregolare, e non v’era modo di sapere

chi la tirasse e trascinasse. Attese con terrore
il momento in cui la lingua avrebbe colpito il metallo,
con rimbombo tanto assordante che nell’eco

di quel tuono avrebbe perso la capacità
di percepire o di ragionare. Generalmente, però,
la campana e il ragazzo rimasero buoni amici.

Riusciva a dire della qualità del suo scampanio al mattino
se era già caduta neve, o se stava per farlo, se la giornata
sarebbe stata nebbiosa, o spruzzata da dolce pioggia.

L’aria era un orecchio che mai percepì in maniera simile
il discorso della campana. Quando divenne un compositore famoso,
dovette soltanto scavare nella sua infanzia lontana,

ricordarsi della campana, indossarla come se fosse un cappello
inoffensivo e musicale – d’improvviso scopriva
l’armonia o l’accordo mancanti – e l’opera era conclusa.

[titolo originale: Leanabachd a’ cho-gleusaiche; su Poesia n. 313/2016, p. 56, traduzione dal gaelico scozzese di Marco Fazzini con l’Autore]

Credo che abbiate già capito dove sto andando a parare… Nonostante non lo avessi annotato durante la conferenza, ricordo ancora bene di come il relatore ci avesse raccontato la curiosa circostanza, con tanto di diapositiva: proprio Martinů, a motivo del mestiere di custode del padre Ferdinand (che faceva anche il calzolaio del paese), nacque e visse con la famiglia per circa dodici anni nel campanile della Chiesa di San Giacomo (Svatý Jakub), a Polička.
He was the man! E senza la conferenza del 2004 forse non lo avrei mai saputo. Eccovi una bella foto del campanile: la chiesa, distrutta da un incendio nel 1845, fu riedificata in stile neogotico. Proprio per il timore che si ripresentasse un episodio simile, il padre fu assunto come vigilante (e accordatore dell’orologio, e altro).

Il campanile di Polička che fino al 1902 fu “casa Martinů“ (František Šťastný, CC BY-SA 4.0, attraverso Wikimedia Commons)

A costo di sembrarvi stucchevole, dico che questi incroci casuali e “giri immensi” che fanno le cose di cultura mi esaltano e quasi mi commuovono, perché muovono una considerevole (anche se fugace) obiezione a quel senso di vacuità che flagella ogni tua lettura, scrittura, movimento. Nel 2016 era già caduta da un pezzo ogni velleità di riconoscimento della mia scrittura critica musicale, quella poetica sarebbe durata ancora qualche anno ma già vacillava… Bene, d’improvviso ti trovi davanti a un aggancio culturale Cechia-Scozia! Te lo saresti aspettato al massimo in una partita degli Europei, e invece questo coinvolge entrambe le tue grandi passioni, musica classica e poesia! Tutto questo magari morirà con me, e non renderà un’acciuga, ma non è stato vano. (Certo che tutto morirà con me: ho proposto la poesia più volte sui miei social e provato a coinvolgere i follower con una sorta di quiz: “di che compositore si tratta?”. Nessun commento, nessuna reazione, nessuna curiosità, voglia di cercare in rete, nessun “dài, diccelo tu. Pace)


Bene, vi ho bell’e divertito e il post sta diventando di lunghezza intollerabile. Ma ovviamente c’è una terza e ultima parte.
Intanto voglio linkare, per le vostre ricerche, il sito del Centro studi Martinů dove potrete trovare tantissimo materiale, e anche la pagina della cattedrale di Polička dedicata agli appartamenti della famiglia Martinů.

Poi, naturalmente, voglio dedicare qualche pensiero alla poesia di Whyte. Trovo che, oltre al fascino personale che essa esercita su di me, essa possa aiutarci a cogliere, sulla base di tutti i dati che abbiamo acquisito fin qui, come lavora il poeta quando, da un elemento che lo colpisce (questa nascita e infanzia d’artista condotta a una quarantina di metri dal suolo), “spicca il volo” e la condisce di note immaginifiche ed emotive. Se collazioniamo il testo della poesia con le note biografiche che possiamo reperire nei siti succitati, troviamo piccole discrepanze (es. il numero dei gradini) ma anche esasperazioni. Per esempio, la circostanza poetica per cui il piccolo Bohuslav non scese i gradini fino quasi alla adolescenza è una iperbole: sappiamo dal sito del Centro studi che, dal 1907, frequentò regolarmente la scuola del paese. Così come, suppongo, il “processo interiore compositivo” che viene reso in versi promana almeno in parte dal talento del poeta, dalla sua visione, costituendo il climax della poesia.
È però importante sottolineare un elemento, e possiamo farlo nell’ultima tappa di questo viaggio spaziotemporale, ossia nel 2020. Anno in cui Whyte pubblica una nuova raccolta, intitolandola proprio col titolo della “nostra” poesia preferita! Dalla scheda del sito personale dedicata al libro, potete leggere una traduzione gaelico-inglese, ma soprattutto inferire che uno dei nuclei della poesia, cioè la tematica del “vivere in altezza”, con tutte le conseguenze di osservazione e relazione con gli uomini che possono formarsi nel reattivo cervello di un bambino, è fondata sulla conoscenza, da parte del poeta, dell’epistolario del compositore (cfr. anche la pagina di San Giacomo, linkata in precedenza). La poesia è così un sapiente equilibrio tra studio e biofiction, tra fatto e sublimazione poetica; e come tale possiamo apprezzarla appieno.


Fine. spero di non avervi annoiato troppo. Comunque vada a finire al recensore… Viva la classica, viva la poesia, viva gli incroci casuali, viva il nostro entusiasmo di Titani.