appunti bartokiani

Una locandina di una esecuzione del 1918 (Bartók Béla, Public domain, attraverso Wikimedia Commons)

[Recupero dal mio vecchio blog musicale, antecedente a quello poetico, alcuni appunti del 2005, non so quanto fondati, buttati giù dopo una visione del Barbablù bartokiano, nel film del 1981 con la regia di Miklós Szinetár, sotto la bacchetta di Sir Georg Solti e con Sylvia Sass e Kolos Kováts per protagonisti. Per un bel colpo di fortuna, oggi la esecuzione (che “taglia” il prologo recitato) è disponibile su YT con tanto di salvifici sottotitoli in Italiano, dato che è stata registrata proprio in uno di quei passaggi televisivi che all’epoca esortavo a non perdere]


Nell’opera Il castello del Duca Barbablù (1911-1917, prémiere 1918) Bartók e il poeta/librettista Balász, a mio parere, si interrogano sulla valenza dell’amore e della conoscenza ad esso legata – tendenza totalizzante, con esiti spesso rovinosi.
La settima porta, che Kékszakállú (Barbablù) non vuole aprire, viene poi dischiusa solo a seguito dell’insistenza di Judit, che nel resistere alla dissuasione di K. è simile all’Oedipus rex di Stravinskij/Cocteau e al suo ostinato ed esiziale “sciam!”.
Dietro la settima porta ci sono tre donne che rappresentano il passato; coloro che il protagonista “tutte” ha amato ed omaggiato con ogni sua risorsa. Proprio come è pronto a fare con J., offrendole se stesso e, simbolicamente, ogni materialità, luminosa o efferata, che sta dietro le porte precedenti. “Tutto ormai ti appartiene, dall’alba al tramonto”, le dice K. allo schiudersi del suo regno senza confini oltre la quinta porta.
La sequenza cronologica delle donne di K. (mattina, pomeriggio, sera) rappresenta quella temporalità normale che però è immediatamente negata ogni qualvolta la successione degli eventi si sposta dal piano diacronico e vuole assolutizzarsi sul piano interpersonale, del rapporto a due. Questo piano ordina al tempo precedente di perdersi; dunque la conoscenza del vissuto precedente è un detrimento. Assistiamo alla cristallizzazione di quattro assoluti tra loro insanabili e contraddittori, incompatibili; proprio perché la nostra dimensione temporale – che a rigor di logica dovrebbe essere considerata qualcosa di estraneo alla giurisdizione di chi si accosta da oggi in avanti a noi – quasi mai viene compresa, chi ci ama davvero non riesce a elaborarla completamente, cerca più o meno consciamente di scavarla, nell’impeto onnivoro dell’amore assoluto, del possesso assoluto, dunque della conoscenza assoluta dell’amato.
(…)
Indossando il diadema e relegandosi, come sposa della mezzanotte, nel silenzio della settima porta, J. diviene passato, cioè irrealizzabilità del proprio progetto esistenziale e relazionale, proprio nel preciso momento presente in cui conosce. Dal canto suo K., vinto al momento stesso del disvelamento, la costringe ormai ad abitare questa dimensione per riconsegnarle il suo significato, il suo progetto, ma in un’ottica fatalista di passato, di fallimento.
J. (con le tre spose precedenti, verosimilmente incorse nello stesso impeto di assoluto) rappresenta la forza cieca volta alla affermazione di amore e conoscenza totale dell’oggetto d’amore; K. la consapevolezza pessimistica, filosofica, dello squilibrio tra l’esperienza e le nostre più intime istanze motrici. Il tutto termina in un silenzio che sembra un monito.

(…)

La svolta del 1919 col Mandarino miracoloso – svolta espressionista, violenta, iconoclasta e sessocentrica fino allo scandalo – vuole fare gioco non solo sulla rinnovata cifra musicale, ma anche spostare l’orizzonte da una indagine gnoseologica che porta spesso a risultati di dolore e crisi. Naturale quindi ricondurre l’accento sull’istantaneo della conoscenza sensoriale e sessuale – più marcatamente immediata, istintiva… Vitale al punto di rendere immortali fino al suo completo soddisfacimento.