Di grazia, che cosa è una “Poetessa”?

Felicia Hemans nel 1820 circa (National Library of Wales, Public domain, attraverso Wikimedia Commons)

Ho sempre, anche nelle mie poesie, risposto tiepidamente o ironicamente alle ostinazioni bilaterali su poetessa o [donna] poeta. Per tre motivi intimamente legati: 1) ritenendo senz’alcuna ironia migliori le donne degli uomini, non ho mai usato il termine “poetessa” in modo sessista o riduttivo; 2) preferisco che il vocabolario contenga più parole al fatto che ne contenga meno (quando alcuni intellettuali propongono di semplificare il vocabolario, mi raffiguro sempre il paradosso della neolingua orwelliana, sperando di non dovere mai impiegare “sbuono” in luogo di “cattivo”); 3) infine, a livello meramente fonetico, “poeta” mi pare un termine grezzo e privo di fascino; per dirla tutta, quando pronunciato a qualifica di una donna, rapportarlo mentalmente con “poetessa” mi ingenera una sensazione di clitoridectomia.

Dopo la lettura di questo articolo di Jessica Roberson su JSTOR Daily, però, sono molto più possibilista sull’eventualità di usare, d’ora in poi, “poeta” anche al femminile. L’ho fatto qui di necessità, traducendo, per contrapporre le poete protagoniste di oggi al modello letterario semisconosciuto di ieri, quello delle “Poetesse” ottocentesche. Continuerò forse a farlo, di certo continuerò a documentarmi.

Sperando di avere fatto un lavoro decente, ve lo propongo perché dentro c’è molto se non tutto: la discriminazionetunc et nunc – nei confronti del canone delle “Poetesse” e in generale di certe scrittrici; la professionalizzazione che certe poete hanno raggiunto, a costo di ingoiare il rospo di tale discriminazioni; una sorprendente conquista dell’autonomia economica mediante la sola produzione poetica (questo mi sembra un dato sconvolgente e, a naso, sconosciuto ai più, quando sentenziano che la poesia non ha mai dato di che vivere); infine, le remore bipartisan – dei critici elitari maschi, ma anche delle femministe intente al processo di riabilitazione – verso chi fa del sentimento il proprio argomento principe, oltre che del canone ottocentesco della “Poetessa” il proprio riferimento formale.

Raccomando a tutti una visita anche alla pagina con l’articolo originale: sia perché la mia traduzione ben può contenere errori (proposte di correzione benvenute: la duttilità è il vantaggio della scrittura online), sia soprattutto perché chi vuole approfondire troverà una serie di link alle tesi critiche lì espresse, la bibliografia, persino alcuni testi di Felicia Hemans, la poeta e “Poetessa” sulla cui figura l’articolo è incentrato.

Il termine prithee, leggo su wiki, ricorre 228 volte nell’opera di Shakespeare (mentre pray thee, di cui è una contrazione, 92), dunque il titolo è verosimilmente l’adattamento di un passo del Bardo, o di qualche poeta coevo, che non mi sovviene. L’ho reso in endecasillabo (tronco?).

Buona lettura.


DI GRAZIA, CHE COSA È UNA “POETESSA”?
(What, Prithee, Is A “Poetess”?)

Jessica Roberson per JSTOR Daily
4 aprile 2018

La popolarità è stata a lungo un’arma a doppio taglio per le scrittrici. Di frequente, essa serve come scusa per espungere il loro lavoro dal canone storico-letterario nel preciso momento in cui tale lavoro si guadagna l’attenzione e l’approvazione del popolo dei lettori. L’opera letteraria femminile è spesso sottoposta ad atteggiamenti di superiorità da parte della critica, come pure a reazioni avverse, una volta che troppe persone l’hanno letta, in particolare se queste persone sono anch’esse di genere femminile, come dimostra il fenomeno di tendenza delle “Poetesse” del diciannovesimo secolo.

*

Lo scozzese Alexander Dyce, editor e storico della letteratura, nel suo trattato antologico del 1825, Esempi di Poetesse Britanniche (Specimens Of British Poetesses; lett. “campioni, esemplari”, ndt), tributò loro un ambiguo complimento che arrivò a caratterizzare questo genere di poesia.

I toni, carichi di magia, che hanno donato nuova esistenza al cuore; i tremendi pensieri che hanno impresso un’impronta di cambiamento al flusso delle ere, e che hanno mutato la tempra delle nazioni – tutto questo non è mai provenuto da donna; tuttavia la sensibilità, la sua delicatezza, la sua grazia, non sono state perdute o male impiegate.

Il lavoro della Poetessa era, dunque, pertinente alle emozioni, gradevole, di facile lettura, ma non era visto come realmente artistico né ambizioso. Anzi, all’apogeo della tradizione delle Poetesse, ovvero negli anni venti e trenta del milleottocento, tale “etichetta” era intercambiabile con qualità “di genere” come sentimentalismo, emozionalità effusiva, immagini floreali.

A dispetto del fatto che il termine “Poetessa” fosse usato con accezione dispregiativa o banalizzante, alcune scrittrici coltivarono tale identità deliberatamente, poiché permetteva loro di condurre una vita agiata, di classe media, attraverso una produzione letteraria con numeri mai visti in precedenza.
Come ha evidenziato la ricercatrice Paula Feldman, il paradigma di Poetessa sentimentale e domestica, ossia Felicia Hemans, guadagnava, come scrittrice, più di altri suoi contemporanei più famosi, inclusi Jane Austen e i poeti romantici “canonizzati” come Percy Bysshe Shelley e John Keats.

Questa tensione tra successo professionale e ruoli tradizionali di genere è divenuta un punto focale nei dibattiti sull’opportunità di recupero da parte della storiografia letteraria femminista. Nonostante la loro coeva popolarità, queste donne sono state in larga parte cancellate dalla nostra memoria culturale collettiva durante i due secoli intercorsi. Abbiamo, sembra, lottato a lungo per poter riconciliare la popolarità di una donna con le sue qualità artistiche e letterarie.

“Sede principale” della Poetessa era l’annuario letterario. Invenzione della stampa periodica degli anni venti dell’ottocento, l’annuario letterario si avvantaggiò degli sviluppi tecnologici che rendevano la carta e il processo di stampa assai più economico. Gli annuari erano riviste finemente rilegate che offrivano un’eclettica combinazione di illustrazioni, poesia e prosa breve di vari generi. Questo mix era dettato dal gusto popolare piuttosto che da una linea editoriale. Seppure all’annuario contribuissero anche noti scrittori e artisti di sesso maschile, esso si rivolgeva principalmente alle lettrici del ceto medio.

Nonostante la veste elaborata, gli annuari avevano un prezzo ragionevole; di conseguenza hanno grandemente ampliato il bacino di lettura di poesie nel primo ottocento. Erano reclamizzati come “il regalo ideale” per la famiglia, gli amici, la persona amata. Erano considerati di valore sia come oggetti di pregio da poter sfoggiare in casa, che come collezione di poesia delicata, femminile. «Gli annuari», scriveva il poeta Robert Southy nel 1828, «sono ormai gli unici libri acquistati come regalo per le giovani donne, mentre in passato questa era la destinazione principale dei libri di poesie».

L’annuario è un antenato dei mass media, e indica un mutamento nella valutazione culturale della poesia. La ricercatrice Katherine D. Harris, che ha scritto diffusamente sull’argomento, ci fa notare che «nel 1828, 100.000 copie di quindici annate separate fruttarono al dettaglio un valore globale di oltre 70.000 sterline». Gli stessi annuari pagavano bene i collaboratori: l’offerta standard era di circa 50 sterline per una poesia di quaranta versi. La somma era sufficiente per mantenere una famiglia per diversi mesi, e la prontezza nel saldare le spettanze permise la professionalizzazione delle poete su livelli mai raggiunti in precedenza. Nel 1830, una scrittrice professionista poteva, scrivendo poesie, guadagnarsi un’agiata esistenza borghese.

La dettagliata ricostruzione dei guadagni della poeta Felicia Hemans, operata da Paula Feldman e condotta sulla base di lettere e dei libri contabili degli editori, esemplifica e rende chiaro che Hemans, coi soli proventi letterari, era in grado di garantire un confortevole tenore di vita alla sua famiglia, che comprendeva cinque figli e, per un periodo limitato, sua madre. Hemans – ci informa Feldman – ha pubblicato 94 poesie in 13 annuari letterari.

Al fulcro della sua fama ottocentesca, Hemans era considerata l’ultima rappresentante delle virtù patriottiche e domestiche femminili. Nata a Liverpool nel 1793 come Felicia Browne, iniziò a scrivere e pubblicare poesie sin dalla giovinezza. Riscosse un moderato successo e attirò l’attenzione di altri scrittori (incluso un tentativo di corrispondenza da parte di Percy Bysshe Shelley; tentativo rapidamente e, con ogni probabilità, saggiamente troncato sul nascere da parte della madre), ma non prese immediatamente in considerazione l’idea di uno sbocco professionale per la sua scrittura.

Felicia sposò il Capitano Alfred Hemans nel 1812, e insieme ebbero cinque figli nei sei anni seguenti. Ma nel 1818 la coppia si separò. Il Capitano Hemans si spostò a Roma e i due non si rividero più. Comunicarono parzialmente, più che altro per questioni legate ai figli, ma lui non la aiutò mai finanziariamente. Fu a questo punto che Hemans diventò consapevole che avrebbe dovuto essere scaltra nell’utilizzo del proprio “marchio di fabbrica” di poeta. C’era in gioco ben più che l’ambizione artistica.

Come risultato di questa presa di coscienza, continuò a pubblicare come “Mrs. Hemans” anche se la vera situazione del suo matrimonio non era affatto un segreto. Questa contraddizione apparente è caratteristica di Hemans nonché indicativa della sua mente acuta ed elastica. Le sue poesie si leggevano bene in più lingue; in più, aveva un occhio attento a cogliere le tematiche storiche che erano popolari presso i lettori. Purtuttavia, la percezione critica che il suo lavoro fosse guidato per lo più da logiche commerciali ne offuscò la recezione. All’arrivo del ventesimo secolo era stata espunta dal canone letterario, nominata unicamente per essere delegittimata come “Mrs. Hemans”.

Negli anni ottanta, quando la ricerca letteraria femminista iniziò a “riscoprire” scrittrici perdute, si ebbe il dubbio se valesse la pena evidenziare la figura di Hemans. Il motivo era che i primi progetti femministi di recupero guardavano con entusiasmo alle scrittrici del passato che potessero essere inquadrate come proto-femministe, come Mary Wollstonecraft, autrice di Una rivendicazione dei diritti della donna (A Vindication Of The Rights Of Woman). Hemans, scrivendo saldamente dall’interno della tradizione delle Poetesse, e sotto molti aspetti impersonandola, indubbiamente non si adattava al modello.

A dimostrazione del contrario, Feldman richiama la nostra attenzione su una raccolta di poesie di Hemans del 1828, Notazioni di donna (Records Of Woman). La maggior parte delle poesie del libro ha a che fare coi problemi che affliggono le donne che raggiungono la fama storica o letteraria. In ogni passaggio Hemans è attenta alle pressioni contraddittorie spesso esercitate sulle donne, alle modalità in cui si sono affermate in una storia scritta dagli uomini.

Colpisce la poesia L’immagine in lava (The Image In Lava), ispirata, come Hemans racconta in una nota a piè di pagina, dalla scoperta, durante gli scavi di Ercolano e Pompei, dell’impronta di una donna che stringe a sé un bambino:

Tu, cosa di tempi passati!
Quali ere trascorsero
Da quando, qui, fu apposto il lugubre sigillo
Da amore e da agonia.

Templi e torri in rovina,
Imperi son caduti
E il cuore d’una donna ha lasciato una traccia
Tale da sopravviver quelle glorie!

Queste prime due stanze stabiliscono un contrasto tra le opere mortali dell’uomo, torri imperi e simili, e la traccia imperitura dell’amore di una madre per il figlio. Più avanti nella poesia, l’io poetante afferma che rinuncerebbe a tutti i tesori della terra per questo solo «monumento grezzo / formato nello stampo dell’amore». Hemans pone l’amore umano e la devozione materna al di sopra di ogni virtù maschile, sminuendo in modo sottile i conseguimenti degli uomini.

Ma, ci dice Feldman, «sebbene Notazioni di donna sia un’opera marcatamente femminista, le ironie e le sovversioni in esso presenti restano al livello di sottigliezza, proprio perché Hemans non poteva letteralmente permettersi di privarsi di una significativa porzione del proprio pubblico pagante».

Alcuni critici del ventesimo secolo hanno espresso riserve sulla qualità del lavoro prodotto dalla tradizione delle Poetesse, che spesso hanno impiegato tecniche formali di vecchio stile, riecheggianti quelle destinate alle classi lavoratrici, come quella della ballata. In altre parole, le loro poesie erano accessibili. In più, i temi erano tipicamente di natura sentimentale, tesi a provocare emozioni più “tenui”: modalità di risposta spesso associata a mancanza di razionalità e verve intellettuale. Come suggerisce il complimento ambiguo di Dyce, siamo stati culturalmente condizionati a credere che il sentimento vada benissimo, ma sia privo di ambizione e non sia prodotto di autentico genio (maschile).

Si veda, a mo’ di esempio, un articolo di John Constable nel Cambridge Quarterly del 2000, intitolato piuttosto schiettamente: Poesia femminile del Romanticismo: è di qualche valore? (Romantic Women’s Poetry: Is It Any Good?).

La tradizione delle Poetesse complica la tradizionale narrazione storico-letteraria concernente lo sviluppo estetico e la formazione dei gusti delle masse, contrapposti a quelli elitari, durante il diciannovesimo secolo. Ma il titolo del pezzo di Constable fa venire in mente tanti editoriali del ventunesimo secolo riguardanti la valutazione di scrittrici popolari e della loro opera. Richiama il titolo del deplorevole pezzo di Evgenia Peretz su Vanity Fair del 2014, in cui si esponevano nel dettaglio le reazioni critiche avverse a Il cardellino di Donna Tartt, a pochi mesi dalla vittoria del Premio Pulitzer per la narrativa: È Tartt; ma è arte? (It’s Tartt – But Is It Art?).

Sebbene le ricerche dimostrino in modo affidabile che le donne leggono più degli uomini, quando un libro è scritto per – e soprattutto letto da – donne, o reso popolare dalle donne, tutto ciò è ancora visto come indice di qualche pecca del libro. Il suo merito letterario è messo in discussione, o addirittura ne viene denunciata la totale assenza. La scrittrice contemporanea Jennifer Weiner, rispondendo con toni acidi a ciò che etichetta come “trattamento cardellino” (“Goldfinching”), replica il linguaggio usato dai critici del diciannovesimo secolo per banalizzare l’opera delle Poetesse: «Quando un libro scritto da una donna raggiunge certe vette di popolarità», scrive, «ben presto qualche critico intellettualoide annuncerà al mondo che non si tratta affatto di letteratura, bensì, piuttosto, di ciarpame sentimentale».

Le critiche letterarie Virginia Jackson e Yopie Prins denominano il ruolo centrale delle Poetesse nel modellare il canone letterario ottocentesco il loro «atto di sparizione»: proprio quando si trova al centro del palcoscenico, al picco delle aspettative e ben visibile al proprio pubblico, ecco che la Poetessa viene di colpo cancellata dai radar.

Dopo la morte di Hemans, nel 1835, la collega Poetessa Letitia Elizabeth Landon pubblicò sul New Monthly Magazine un’elegia, Stanze sulla morte di Mrs. Hemans. L’andamento ritmato (giambico, ndt) del lamento di Landon evidenzia il contrasto tra immagine pubblica e privata di una poeta:

Caro è il prezzo del dono,
Il dono del tuo canto;
È segnato il destino di colei che si staglia
Come sacerdotessa del santuario.
La folla vede solo la corona,
Ode soltanto l’inno;
Non nota che la guancia è impallidita,
Né che l’occhio è offuscato.

Hemans e Landon non s’incontrarono mai. Ma l’enfasi data da Landon alla inosservata tristezza di Hemans comprova quanto fossero familiari a queste donne il mascheramento di sé e il contegno attoriale in pubblico. Landon si muove attraverso uno spazio lasciato vuoto nella storia, ricordandoci la popolarità delle Poetesse, che permetteva anche di comunicare tra loro.

**

English version ©2018 ITHAKA. All Rights Reserved.
Italian Translation intended for fair use and study, not for commercial purposes.
Traduzione Italiana | Italian translation: Roberto R. Corsi → Licenza CC BY-NC-ND 4.0 (en | it)