Quando, esattamente, i bambini iniziano a pensare di odiare la poesia?

Una immagine da “The Golden Staircase. Poems And Verses For Children”, 1907 (Internet Archive Book Images, No restrictions, attraverso Wikimedia Commons)

Forse perché la poesia, così come la conosciamo, sta morendo, o piuttosto mutando in qualcos’altro, forse per qualche diversa ragione, mi sembra d’incontrare una sempre maggiore presa di attenzione, quasi “autoptica”, al cosiddetto odio per la poesia. Dalla famosa sovrimpressione in un intermezzo de La grande scommessa («truth is like poetry, and most people f’ing hate poetry»), al titolo e al contenuto del gettonato libro di Ben Lerner uscito in Italia lo scorso anno. Ora su LitHub un noto autore e commediografo che scrive anche libri per bambini e ragazzi, Chris Harris, s’interroga sul quando e sul perché nasca quest’odio (il quale, secondo me, quando il fanciullo diventa adolescente e adulto, si forma via via come odio per la figura del poeta piuttosto che per le poesie: ne parlo recensendo Lerner al link sopra). Il titolo mi ha attirato e ho tradotto il pezzo, per scoprire che questo, a parte la “puntina” di autopromozione, potrebbe essere parecchio condensato attorno all’idea di libertà di sperimentare, allentando la briglia delle regole e dell’apparato. Allentamento che vedo pure io come progetto interdisciplinare (valido per es. anche per l’ascolto da parte degli adulti della musica del novecento, a mio minoritario avviso).
Deduco, per brevità, solo che, in contraddizione con lo stile dei loro poeti contemporanei preminenti (vivaddio più autoironici e meno seriosi di quelli al di qua dell’oceano), gli Americani esagerano con la didattica poetica per bimbi e fanno loro ‘na capa tanta. Poi deduco che esagerano particolarmente con gli haiku, suppongo snaturandoli (entrambe le cose avvengono anche qui). Infine deduco che dovrebbero conoscere e invitare l’amica Annalisa Macchia, brava poeta e insegnante che a queste posizioni e metodi è arrivata da quel dì. Dài, Annalisa, Get your feet on Route 66!

A voialtri, buona lettura.


QUANDO, ESATTAMENTE, I BAMBINI INIZIANO A PENSARE DI ODIARE LA POESIA?
Chris Harris, autore di “SONO NEGATO PER LE RIME e altre sciocchezze per discoli e bamboccioni”, riflette sul tema “insegnare ai più giovani come scrivere in versi”.

26 Aprile 2018, Chris Harris per Literary Hub.

VI PREGO VI PREGO VI PREGO VI PREGO VI PREGO
VI PREGO VI PREGO VI PREGO MENO HAIKU
VI PREGO VI PREGO VI PREGO VI PREGO VI PREGO

Poiché aprile negli Stati Uniti è il Mese Nazionale della Poesia, ho passato le ultime settimane a parlare alle classi elementari. A ogni tappa, leggo poesie tratte dal mio libro per bambini e da altre parti, sudo in quantità eccessive per un esperto conferenziere e provo a trasmettere il mio entusiasmo per la poesia a bimbi diversi dai miei, che hanno già sofferto abbastanza nel corso degli anni. Inoltre, chiedo agli studenti se di recente hanno svolto qualche attività correlata con la poesia. Fino a oggi, c’è una sola risposta che io abbia sentito in ogni singola scuola. Esatto: gli haiku.

Non ci sono haiku nella mia personale produzione letteraria. La cosa che, senza intenzione da parte del suo autore, più si avvicina a un haiku può essere un pugno di versi inseriti in una prima edizione della quarta di copertina: “Ehi, ragazzi! / (Pensate che) Odiate la poesia? / Questo libro è per voi”. Ho sensazioni contrastanti su quel messaggio e non solo perché è un haiku terribile. Da una parte: sì, questo libro è per voi, per favore acquistatelo. Dall’altra, quando diciamo ai bambini “Non odierai questo tipo di poesia”, mi chiedo se non stiamo sottilmente dicendo loro che dovrebbero odiare gran parte della poesia.

Mi ricorda quel classico trabocchetto retorico dei genitori: “Va bene, non ti piace la maggior parte della verdura, ma questo ortaggio è delizioso: assaggialo!”. Quand’è che la poesia è diventata i broccoli della letteratura? Che cosa avviene tra il momento in cui cantiamo giocosamente “Aeroplanino in arrivo!” ai nostri bambini e quello in cui iniziamo a leggere un sonetto dritto nelle loro orecchie?

Sono sicurissimo che i bimbi non nascono già provvisti di odio verso la poesia. Ne sono circondati già nei loro primi anni: filastrocche, libri illustrati, quella stupida canzoncina “ma la volpe come fa?” [sembra proprio un equivalente del nostro coccodrillo, ndt]. Che succede, allora? Questa domanda mi ha fatto riflettere sui modi in cui spesso i giovani incontrano la poesia a scuola, in rapporto alla libertà con cui altre materie vengono insegnate.

A educazione artistica, iniziamo dipingendo con le dita (finger painting) ed esplorando i materiali; non esiste “cattiva arte”. Insegnando scrittura, la tendenza è quella dello “spelling creativo”: quando sei uno scrittore in erba, non cè nesun erore d’iscritura. A matematica… A dire il vero, non riesco ancora a capire il metodo Singapore; ritiro tutto, mettiamo da parte la matematica per ora. E in sport come il Tee-ball, “tutti arrivano in base” e non ci sono punteggi ufficiali (anche se, ufficiosamente, so il risultato di ogni singola partita dei miei figli). In quasi ogni area didattica, l’idea è di ignorare i particolari e iniziare lasciando che i ragazzi si sporchino le mani – letteralmente, nel caso del finger painting – perché il primo passo verso la padronanza è prendere confidenza e fare esperienza concreta. Noi diciamo loro di giocare. Di esplorare. Di non preoccuparsi delle regole.

…E per insegnare la poesia? Iniziamo scrivendo haiku!

Non intendo certo sparare su una forma d’arte plurisecolare che sopravviverà a lungo a qualsiasi cosa io possa fare lungo la mia patetica esistenza. Gli haiku affidati alle giuste mani – categoria che di sicuro non comprende le mie mani – possono essere straordinari. Ma gli haiku sono anche di incredibile sottigliezza. La loro essenza, quieta e meditativa nel tracciare una linea di congiunzione tra natura ed esperienza umana, li rende semplici da buttar giù ma ardui da cogliere nel loro spirito.

Immagino che il genere sia popolare alle elementari per via dello schema semplice [5,7,5, ndt]. Giusto. Ma anche il film La mia cena con André ha uno schema semplice, eppure suppongo che non farebbe furore a una festa per un nono compleanno.

Deve trattarsi anche di un genere piacevolmente facile da insegnare. E quando, al giorno d’oggi, nella maggior parte degli stati gli insegnanti hanno a malapena i fondi per un pezzo di carta col quale fare richiesta di fondi ulteriori, ci sono problemi assai maggiori da affrontare rispetto a quello di riesaminare la nostra metodologia didattica poetica.

Nondimeno, per i genitori e per quei tre/quattro distretti che finanziano per intero i loro istituti scolastici, ecco come la penso. In assenza di un contesto più ampio, sperimentare la poesia solo mediante forme precostituite come haiku, acrostici, “cinquine” (strofe pentastiche) e “poesie diamante” potrebbe dare agli studenti la sensazione che la poesia sia solo il tentativo di qualche sadico diavoletto di rendere la lingua inglese ancor più complicata e irritante. “POESIA: È come la scrittura normale, ma con ancora più regole!”. Non stupisce che alcuni ragazzi passino da apprezzare la poesia a (pensare di) odiarla e poi a (essere consapevoli di) non sopportarla più.

Un approccio a cui sono giunto nei miei interventi è quello di aiutare i bambini a pensare alla poesia come a qualcosa di diametralmente opposto: invece che un genere che ha più regole della grammatica standard, perché non pensiamo alla poesia come a un tipo di scrittura che è libera dalle regole comuni? Libere dalle solite preoccupazioni della grammatica standard, dalla struttura ortodossa della frase, dalle convenzioni sui margini e persino – se sei E. E. Cummings – dal fastidio di dover usare il tasto shift, guardate come le parole inglesi possono apparire improvvisamente duttili e potenti.

Nota bene: non ho detto “nessuna regola”. Non sono un anarchico bombarolo col pizzetto a capra. Ritmo, metrica ed emozioni restano fattori importanti da tenere in considerazione, perfino ai primissimi livelli di apprendimento della poesia. Il punto sta più qui: invece di rifilar loro planimetrie sillabiche, assicuriamoci che i ragazzi abbiano modo di divertirsi con le parole – di “fare finger painting con le parole” – proprio come consentiamo loro di fare quando si tratta di esplorare altre materie.

Se possiamo aiutare i ragazzi a pensare alla poesia come espansiva piuttosto che costrittiva, saranno in grado di scoprire quante direzioni ci sono in cui esplorare. Dr. Seuss e Lewis Carroll si divertono a rimbalzare tra parole senza senso che, magicamente, ne acquistano uno. Nikki Grimes usa il suo bagaglio d’immagini e momenti precisi, scolpiti col laser, per fare in modo che il vissuto personale sia percepito come universale. John Grandits, ingegnosamente, rende labile il confine tra parole e illustrazione: la poesia è l’immagine. L’uso della disposizione delle parole e delle parole-come-suoni (d’accordo, uso il termine tecnico: onomatopea) da parte di Kwame Alexander fa sì che il lettore sia coinvolto e, per un momento, sconvolto. Ci sono infinite modalità di poesia; quella che scegli dipende da ciò che vuoi trasmettere.

Ora, a paragone col lavoro degli autori qui sopra, il mio libro è come uno scarabocchio a pastello su un menù per ragazzi. Il repertorio immaginifico delle mie poesie è limitato a cose tipo cammelli a quattro gobbe e lupi mannari che perdono il pelo. L’unica poesia che si avvicina a una forma classica è un acrostico di “LOVE”, ma anch’essa deraglia quando altre lettere (come R, G e P) si mettono nel mezzo, scombinando tutto con la loro richiesta di essere incluse nella parola.

Però ciò che dico ai ragazzi è che il mio libro, pieno di poesie che ho scritto per far sì che i miei figli ridessero, sorridessero e ogni tanto si grattassero la testa, è il risultato della mia decisione di giocare, esplorare e non preoccuparmi delle regole. Una poesia è scritta in cerchio, cioè può andare avanti all’infinito. Un’altra poesia è scritta al contrario. Un’altra ancora è composta per intero di paradossi/ossimori (“Quella notte il sole era ghiaccio rovente…”). Un’altra quasi del tutto dalla parola “avocado”, in differenti accenti. Un’ultima, Il duello, è totalmente priva di parole ma usa le lettere “b” e “d” per narrare una storia in modalità visiva (spoiler: le lettere finiscono con diventare “q” e “p”).

Ho provato perfino a giocare con la struttura stessa del libro. La numerazione di pagina è opera di persone che in apparenza hanno scordato l’esistenza del numero 8. Ogni raccolta di poesie ha un indice interno (“in-dex”); io vi ho inserito anche un “out-dex” di altre poesie non abbastanza buone per far parte del libro. Un’altra sezione s’intitola Abbecedario del più pigro artista del mondo: 26 pagine di abbecedario in cui un artista ha usato sempre la stessa, identica figura, semplicemente cambiandole la didascalia.

Tutto ciò è poesia in senso tecnico? Probabilmente no. In realtà si tratta solo del mio finger painting; ma se un bietolone sudato come me può arrivare a fare un libro intero – dico loro – immaginate cosa ciascuno di voi può fare.

La poesia per bambini viene a volte declassata perché in molta parte è, o tenta di essere, comica. Certo che lo è. Ridere è una delle prime esperienze sociali condivise dell’essere umano. Più ancora, ridere è un’emozione di passaggio: se fai ridere qualcuno, lo metti a suo agio; hai instaurato un rapporto di fiducia con quella persona, e da lì è più facile sperimentare altre emozioni. Ecco perché ogni brindisi matrimoniale parte con una battuta su quanti bicchieri lo zio di turno si è dovuto scolare per commuoversi. Ridere è il modo più semplice per instaurare un legame – tra scrittore e lettore, per esempio. Ecco perché anch’io inizio i miei interventi leggendo qualche poesia comica del libro; dopo che chi mi ascolta ha abbassato la guardia, possiamo passare a poesie più serie (“Di fuori sono timido / però non t’ingannare: / dentro la mia cabeza / sono molto sociale…”). Tornando alla similitudine dei broccoli: possiamo rendere più appetibile l’esplorazione delle emozioni serie se le friggiamo nell’umorismo.

…Vedete? Ve lo avevo detto che non sono bravo con le immagini.

D’accordo, ne tento un’ultima. Col rischio di incrementare la quantità di poeti nel mondo, dunque la concorrenza, mi auguro che, quando presentiamo la poesia agli alunni delle elementari, possiamo assicurare loro un po’ di tempo per giocare lungo l’intero panorama delle parole, non solo dentro un recinto 5x7x5. C’è così tanto da scoprire con metrica, accostamenti, rima, allitterazione e tutto il variegato strumentario a disposizione di uno scrittore. Se si avventurano soltanto un po’, possono imbattersi in una nuova modalità di scrittura e sentirla perfettamente adatta a loro. Può essere una poesia che forma anche una figura, oppure una poesia in cui ogni parola inizia con la stessa lettera [tautogramma, ndt], o ancora una poesia che si muove erraticamente per mostrare un piccolo spaccato di vita.

Può essere persino – e sia! – un haiku.


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Traduzione Italiana | Italian translation: Roberto R. Corsi → Licenza CC BY-NC-ND 4.0 (en | it)