Michel Houellebecq, Configurazioni dell’ultima riva

Houellebecq nel 2016 (Fronteiras do Pensamento, CC BY-SA 2.0, attraverso Wikimedia Commons)

Il Philip Larkin di Sia questo il verso ma anche del fulminante incipit di Finestre alte; alcune poesie giovanili di Giorgio Manganelli; certamente I fiori del male di Charles Baudelaire. Questi i nomi e i numi che, per motivi diversi, mi sono venuti in mente leggendo la raccolta di poesie (e qualche prosa) dell’acclamato Michel Houellebecq, tradotta per Bompiani da Alba Donati Fausta Garavini.
Accompagnato, al tempo dell’uscita (fine 2015), da copiose interviste (una, molto bella e a cura di Stefano Montefiori, anche su La lettura), il volume porta il crisma o più probabilmente lo stigma del suo creatore: romanziere di successo, foriero di posizioni talora scomode, personaggio pubblico per il quale vige il più classico o si ama o si odia. Molti lo odiano, però, tra provocazioni, dice o constata cose talora esatte. Come, nella citata intervista, che la poesia non perdona l’ironia (glossa: almeno di qua dall’oceano).

Coerentemente con le dichiarazioni programmatiche, Houellebecq verseggia una condizione umana solitaria e disperata, una felicità estremamente ardua se non impossibile, una morte già presente e da pronunciare senza tabù, un senso della vita “ammesso e non concesso” che si identifica spesso con nient’altro che con animalità e istinto sessuale, con la negazione di ogni supporto psicologico, con la negazione di qualunque solidarietà umana o cavalleria, fino all’accensione Mimnermiana della catastrofe dell’impotenza che diventa glaciazione esistenziale in un mondo che sembra gettare la maschera.

Alcuni esempi di poesie intere o stralci lungo il libro:

Non c’è amore
(Non davvero, non abbastanza)
Viviamo senza soccorso,
Moriamo abbandonati.

L’appello alla pietà
Risuona nel vuoto
Le nostre membra sono storpiate,
Ma le nostre carni sono affamate.

Sparita la promessa
Di un corpo adolescente,
Entriamo in vecchiezza
Dove nulla ci attende

Se non la memoria cruda
Dei nostri giorni sperduti,
Un soprassalto di odio
E la disperazione nuda.

***

Nella contraddizione che colma i nostri mattini
Noi respiriamo, è vero, e il cielo è accessibile;
Ma non crediamo più che la vita sia possibile,
Né abbiamo l’impressione d’essere umani.

L’infanzia è terminata, la scena è distribuita;
A forza d’abitudine e di rassegnazione,
Abbiamo soffocato i gridi della passione;
C’incamminiamo verso la fine della partita.

La polvere volteggia, movente, sulla grigia distesa;
Un colpo di vento viene e purifica lo spazio.
Abbiamo voluto vivere, ne resta qualche traccia;
I nostri corpi al ralenti bloccati nell’attesa.

***

Quando la notte si frastaglia in uccelli lenti
E i giorni non offrono più nessuna alternativa
Bisogna smetterla di vivere, senza ritardi e senza lamenti
Il nulla ci propone una pace relativa.

***

Metti la lingua, un po’, sul mio cazzo
Prima che non ci sia più niente affatto.

***

Supermercato dei corpi dove lo spirito è da vendere,
E le psicologie si torcono e si sciolgono
Sotto il sole. Abbronzato, non serve a nulla pretendere
Di avere un’anima.

***

Povera ragazza,
Capelli lisci brutto corpo
Lavori all’aeroporto
Guardando sotto la pioggia
Gli aerei che decollano.

Visetto di maiale
Appiattito dallo sgomento,
I seni che cascano a diciassette anni
E il pallore triste delle chiappe

***

Quando non si rizza più, tutto a poco a poco perde importanza;
Tutto a poco a poco diventa opzionale.
Rimane un vuoto adorno, infettato di piaghe e sofferenza
Che affliggono il corpo. Il mondo di colpo è più reale.

Verrebbe da rispolverare il Woody del credo nel sesso e nel decesso e per molti versi è così. Salvo avvistare, assieme alle curatrici, la «possibilità di un’isola», quella dell’amore (al limite anche sensuale ma sempre) sentimentale: essa – è vero – s’annida spesso nel ricordo lontano o nel rimpianto per amori più o meno fugaci, più o meno da Atto terzo del Tristano:

In fondo l’ho sempre saputo
Avrei aspettato l’amore
E sarebbe arrivato
Poco prima che morissi.

ma questa isola da raggiungere esiste, almeno nella sua fumosa potenzialità.

Il dato formale che mi appare significativo, e il motivo per cui citavo Larkin, sta nel fatto che Houellebecq – come si evince anche dagli esempi sopra – sceglie di trasporre le sue poesie, dalla sostanza attualissima, in una metrica tradizionale. A volte perfino in rima identica, spesso nel metro de I fiori che, almeno nella traduzione isometrica di Gesualdo Bufalino, viaggiano in verso alessandrino (in traduzione, doppio settenario) con quartine rimate secondo differenti schemi. Nel complesso l’operazione porta giovamento alla sostanza e alla scelta lessicale poco più che colloquiale; prova ne è che proprio le poesie “à la Charles” sono quelle che ho preferito. Su tutte questo ampio affresco

La sera scende, porta pace e amarume;
Il sangue batte nelle vene ai ritmi affievoliti
Di fine giornata; i corpi sono abbrutiti,
Domattina il cielo si coprirà di brume.

Un’aria calma e ramata circola fra i corpi
Che si coprono d’olio e sorridono alla morte,
Programmati nei geni e nelle abitudini;
Un aquilone esita, ebbro di solitudini.

La sera s’immobilizza, l’aquilone ripiomba;
Il bambino gli sta di fronte e contempla la tomba
Le bacchette spezzate, i resti di velatura,
Nella perfetta indifferenza della natura.

Il bambino fissa il suolo, la sua anima si epura;
Ci vorrebbe un gran vento che disperda la sabbia,
L’oceano ridondante, l’olio e la carne miserabile;
Ci vorrebbe un vento forte, un vento inesorabile.

Il soffio della pioggia si levava sul mare
E il sole sprofondava come una ruota di sangue
Ero solo sulla spiaggia e stringevo i denti,
Sulla lingua fluttuava un sapore un po’ amaro

E mi sentivo triste fra gli scimpanzè,
Tu avevi comprato dei barattoli di conserva
Bisogna che la natura obbedisca e ci serva,
Ero solo sulla spiaggia ed ero mal rasato.

Bisogna che la natura si conformi all’umano
E che l’umano si compia e diventi remoto
Ho sempre temuto di cadere nel vuoto,
Ero solo nel vuoto e avevo male alle mani.

La spiaggia è scomparsa con rumore d’imbuto,
Mi sentivo travolto da una marea di terrore
La mia sopravvivenza prolungata, un errore,
Il mondo è diventato radicalmente muto.

La buona traduzione di Donati e Garavini ha la priorità di conservare per quanto possibile la struttura prosodica, le rime e le assonanze (come Bufalino per Baudelaire), a costo di qualche scelta opinabile (come Bufalino per Baudelaire). «En examinant ce Danois | Connu sous le nom de Bjarne Riis» diventa «Esaminando questo Danese | Come Bjarne Riis noto al paese» creando il possibile equivoco di far pensare a un danese paragonabile in notorietà al noto ciclista, anziché allo stesso… (meglio tradire così: «Esaminando quel famoso Danese | Quel Bjarne Riis assai noto al paese»).
In altre parti, considerando che Houellebecq stesso ironizza sulle sue trovate («(Mi scuso per questa rima andante)»), o mette in scena rime forzatissime («petit | Rimini») che fanno pensare al famoso Let’s play two sets | In Massachussetts di They’re Playing Our Song, si poteva allentare un tantino la gabbia. Ma l’esame, come potete leggere nelle poesie che vi riporto, è superato abbondantemente.

Non tutto il libro è allo stesso livello d’ispirazione. In particolare, delle pagine in prosa si poteva fare tranquillamente a meno; alcune poesie invece saltano letteralmente, al proprio interno, di palo in frasca (senza che traspaia una intenzione programmatica di questo tipo, che so, à la Lunch poem di O’Hara). Del resto, l’impressione è di un materiale accumulatosi senza alcuna progettazione o post-produzione. Una raccolta asistematica, disorganizzata, senza filtro; a volte perfino contraddittoria (felicemente o infelicemente, scegliete voi). La citata «possibilité d’une île» porta con sé squarci di speranza nella comunque prevalente disperazione. Ancora, una prosa (cfr. Lontano dalla felicità) si preoccupa di demolire il famoso passo dell’Ecclesiaste per cui la conoscenza porta dolore; poche pagine dopo, si auspica una plateale ripetitività della vita che altro non è che mancanza di conoscenza/coscienza…

Essere un cagnolino bianco che corre senza sosta
dietro lo stesso ramo,
O un vecchio prete nero che dice senza piagnucolare
la messa domenicale:

Insomma avere una fede, minuscola o sublime,
un insieme di gesti
Come una danza idiota, diciamo la moresca,
una danza modesta

Che si balla senza sforzo, minimo apprendistato,
pochissima riflessione:
Raggiungere la felicità immobile e ciclica della
ripetizione.

Una raccolta che nel complesso giudico positivamente, forse trainato in parte dal narcisimo di lettura (cit.) di un sodale nella mia tragicomica (e comitragica) concezione della vita… Certamente Houellebecq è, se non un Nume, un demiurgo (distruttore, con beneficio d’inventario) con cui dovrò fare i conti d’ora in avanti.

[Michel HOUELLEBECQ, Configurazioni dell’ultima riva, traduzione di Alba Donati e Fausta Garavini, Milano: Bompiani, 2015, ISBN 978-88-58-77224-9 (letto in edizione ebook)]