Letteratura demotivational per l’estate: “Fama tardiva” di Schnitzler

Lo Schnitzler-Park a Baden, vicino a Vienna (Karsten Ratzke, CC0, attraverso Wikimedia Commons)

Anche per mitigare il mio ennesimo fallimento librario ho letto, naturalmente, Fama tardiva, novella di Arthur Schnitzler scritta tra il 1894 e il 1895, rimasta a lungo nascosta a Cambridge, all’interno del lascito di mano- e dattiloscritti dell’Autore, e tradotta in Italiano solo da pochi mesi, da Alessandra Iadicicco per i tipi di Ugo Guanda.

Non potevo certo resistere all’attrazione data dalla trama: un vecchio e solitario impiegato, autore trent’anni prima di un libro di poesie (“Passeggiate”) anonimo sia nel titolo (cfr. Robert Walser e tutta la cultura della flânerie) che nella sorte (il comune oblio dei libri di poesia e dei loro Autori), dunque un uomo öhne Eigenschaften che quasi subito aveva messo il cuore in pace e le energie in carriera, viene, chissà perché, elevato improvvisamente al rango di Maestro ispiratore di un circolo di sedicenti artisti.
Questa circostanza repentina e inaspettata soffia sulla brace della sua autostima, ma il risultato sarà effimero, gli farà scoprire ipocrisia delle persone, futilità degli sforzi, irreparabilità del tempo perduto; al punto che il rifluire nel canale scolmatore della comunità borghese, insensibile al concetto di poesia “alta” ma benevola verso chi si tiene nell’anonimato (“E tutti lo annoveravano come uno di loro, e nessuno aveva il sospetto di chi egli fosse davvero!”), gli sembrerà quasi piacevole.

Un racconto che si legge in uno-due giorni; avrei voluto che fosse il mio “libro per l’estate” ma ovviamente le dimensioni lo impediscono.
L’impianto e il tono della narrazione forse non sono sempre all’altezza del miglior Schnitzler, ma l’affresco è gustoso e se ne deve desumere una volta di più come il portato psicologico del fallimento letterario desti interesse nei grandi autori.
Buono l’apparato dei due curatori tedeschi Hemecker e Österle.
L’ho letto in fretta, come detto, e in edizione ebook (di conseguenza i miei riferimenti non saranno alle pagine ma giocoforza alla percentuale). 

In campo poetico mi viene in mente una splendida prova del compianto Gianfranco Palmery, Dopo la tempesta, che in pochi versi musicalissimi esprime “shakespearianamente” il processo psicologico della rinuncia al proprio presunto “dono”.
In chiave narrativa il pensiero non può non andare all’altrettanto gustosa novella di Italo Svevo,
Una burla riuscita, del 1926; ma gli snodi della vicenda sono diversi, e se quest’ultima si concentra quasi esclusivamente sulla vanità e ingenuità del protagonista Mario Samigli, i cui sforzi letterari Svevo giudica apertamente sino dall’incipit come di bassa qualità (anzi, Svevo scrive subito che il romanzo di Samigli non è “morto”, ma nemmeno degno di essere annoverato tra le cose che han preso vita), Schnitzler ci dona un protagonista, Saxberger, più disincantato verso se stesso e la società, e le sue tinte più critiche vanno alla levantina inettitudine dei membri del circolo “L’entusiasmo”; si tratta di un gruppo di artisti fuori dal giro, millantatori nel dipingere come capolavoro la silloge delle “Passeggiate” che probabilmente nessuno ha letto, sedicenti artisti avulsi dalla realtà ma (somma e attualissima contraddizione) tumultuosamente intenti a farsi conoscere anche da un pubblico di non addetti, e soprattutto tutti individualisti: ciascuno individualmente ai margini o del tutto fuori dalla vita artistica viennese, e ciascuno intento a dirlo alle spalle degli altri.
Da questa meschinità, pur annacquata da toni galanti o da cadenti cliché attoriali nel caso della Gasteiner, emergono per restare impressi due personaggi: il lamentoso e approfittatore Linsmann e il giovane Winder, la figura appartata ma moralmente migliore (e lo dimostra sul finale); alcuni vedono in loro la caricatura di due figure capitali della Vienna culturale di fine secolo quali, rispettivamente, Peter Altenberg (che si definì in un carteggio a Schnitzler “invalido della vita”, più o meno come Linsmann) e nientemeno che Hugo von Hofmannstahl che iniziò giovanissimo a frequentare gli ambienti culturalmente significativi in città, subendo quindi un benevolo “nonnismo”.
Rispetto allo sveviano Samigli e soprattutto ai membri del circolino viennese, Saxberger ha il merito, all’inizio e alla fine, di saper cogliere con realismo la portata dei propri sforzi – anche se essi non vengono mai citati né giudicati apertamente da Schnitzler, né si sa se la pubblicazione delle Passeggiate sia stata o meno a spese dell’autore – e la futilità del tutto. Tra i due estremi, certo, ci sono pagine di ebbrezza, di studium laudis, di dubbio quando non di consapevolezza di essere “di ben altra specie” rispetto a una classe lavoratrice in piena, weberniana ascesi intramondana. Pagine persino di velata accensione erotica e sensuale, di ritrovata voglia di avventura di fronte alla stereotipata, plateale adorazione della Gasteiner. Ma queste fiammate si rivelano di zolfanello, durano poco: non si riesce più a comporre un verso; una passeggiata sulla riva del Danubio svela come il mondo non si accordi più con noi; tutto è opportunismo; la società che conta (artisticamente, giornalisticamente, produttivamente) è completamente sorda o ci canzona.

Se l’episodio che avvia la catarsi è un non meglio precisato commento ad alta voce proveniente da uno spettatore dell’evento letterario, i veri momenti demotivational – dal mio punto di vista, le pagine più forti del libro – sono due.
Intanto, nelle pagine iniziali, la plastica declinazione (psicologica più ancora che sociologica) del meccanismo di illusione e declino (6% dell’edizione Kindle):

È la solita vecchia storia. All’inizio ci basta la gioia personale di creare e la partecipazione dei pochi che ci capsicono. Ma alla fine, quando si vede che qualcuno diventa di moda, conquistandosi un nome e perfino una certa celebrità, si vorrebbe a propria volta essere ascoltati e celebrati. E allora arrivano le delusioni! L’invidia di coloro che sono privi di talento, la leggerezza e la malafede dei recensori, e poi la tremenda indifferenza della massa. E ci si sente stanchi, stanchi, stanchi. Si avrebbe certamente ancora tanto da dire, ma non c’è nessuno che voglia ascoltare, e alla fine si è i primi a dimenticare di essere stati tra coloro che hanno desiderato qualcosa di grande, e che forse qualcosa di grande l’hanno perfino creato.

Da notare che Schnitzler non mette queste parole in bocca a Saxberger, pur se gli si adatterebbero perfettamente, ma al giovane Meier, che probabilmente le usa solo per fini adulatori senza crederci troppo. Eppure… 
Spicca e brilla poi, verso la metà del libro, il confronto con Grossinger, proprietario della trattoria in cui il protagonista spende i suoi incontri borghesi e non-poetici. Il confronto inizia quando Grossinger ferisce inconsapevolmente Saxberger recitando “un brindisi in versi” con “rime da quattro soldi, innocue, in cui si celavano allusioni scherzose alla vita privata del festeggiato”. Grossinger, simbolo di una società che misura tutto economicamente e in base a questo può liberamente storpiare ciò che venale non è, riscuote un fragoroso consenso dagli avventori, e addirittura esortazioni a “pubblicare tutto così com’è”! Ciò minaccia la ritrovata autostima e lo slancio puro del vecchio poeta, che si spinge perfino a dover vantare apertamente la propria pubblicazione. La reazione borghese (molto simile a quella dei nostri giorni, e dunque occorre ammettere che i tanti che oggi perculano i poeti non hanno inventato nulla di rivoluzionario) è ben lungi dalla reverenza (39%):

«Ho scritto un intero volume di poesie quand’ero giovane, capite?»
Grossinger guardò per un attimo il vecchio signore un po’ sconcertato, poi si volse sorridendo verso il festeggiato e gli disse: «Avete sentito quel che va raccontando Saxberger? Un intero libro di poesie, ha scritto».
Il festeggiato ridacchiò divertito e non si voltò nemmeno. «Dio lo perdoni», fece.
Saxberger si rese conto che non poteva più tornare indietro e disse: «Non mi avete capito! Ho scritto un libro – è stato stampato, chiaro?»
«Ah be’» esclamò Grossinger, «allora da giovane siete stato un ragazzaccio come tutti gli altri! Subito a farsi pubblicare.»
Saxberger era furente. «Non ho scritto rime da quattro soldi! Erano poesie: belle, lunghe, serie. Lo capite?» Saxberger parlava ormai così forte che alcuni dei vicini di tavolo si fecero attenti.
Grossinger rise e disse a Saxberger: «Ma perché ce lo raccontate? Se non aveste scritto niente sarebbe stato ben più strano!»
E prima ancora che Saxberger potesse replicare alcunché, altri si erano intromessi nella conversazione. Saltò fuori che tutti quanti in passato avevano scritto dei versi, e al pensiero veniva loro da ridere.


Potentissima pagina, questa, in cui l’anelito poetico viene da un lato relegato alla fase della sognante giovinezza (e la frizione tra la “fama” e la non più giovane età è dolorosamente presente alla mente di Saxberger lungo tutto il libro:
il genio è fama e gioventù, si direbbe storpiando Lee Masters) e dall’altro ridicolizzato sotto l’aspetto attualissimo e dibattutissimo del “tutti poeti”, complice forse un’inveterata editoria a pagamento mai nominata ma credo presupposta.

Buona lettura dunque, e buon nirvana ai nostri versi con questo veronal ben più risalente di quello di
Fräulein Else (1924). Magari più in là torniamo anche su Svevo.