Alessio Alessandrini, Somiglia più all’urlo di un animale

Foto di Anita da Pixabay

Il libro che Alessio Alessandrini ha dato alle stampe nel 2014 per la “bianca Italic” ci restituisce copiosamente lo stile di un poeta già in passato gratificato da un importante riconoscimento ossia il premio Camaiore “Proposta” del 2010 (con La vasca, 2008, LietoColle; oltretutto alcune poesie destinate ma editorialmente espunte da quell’esordio sono invece rifluite nel nostro libro). Più recentemente, il terzo premio a Poesia di Strada edizione 2014 (dove ci siamo convivialmente conosciuti) e la semifinale ancora al “Camaiore” ma questa volta “senior” nel 2015, e proprio col volume di cui oggi parliamo, testimoniano un’attenzione critica crescente.
Copiosamente, dico: il titolo d’apres Volponi (è una citazione dalla poesia Il canto) c’introduce a una prova generosa – se non ho contato male sono 90 testi, divisi in più sezioni provvidamente dotate ciascuna di una propria individualità. Trait d’union tra esse è il lirismo di Alessio che tende il filo rosso dei luoghi e delle persone. Il suo registro è musicalmente e lessicalmente raffinato, il suo colore ancora un po’ pastello per la mia personale sensibilità; nondimeno sono ravvisabili gangli di tensione che vanno nella lodevole direzione della trasparenza, di una maggiore carica emotiva ed espressiva. Proprio questi vorrei brevemente evidenziare.

Da un punto di vista qualitativo la sezione più riuscita è, per distacco, quella centrale de La panchina azzurra: in essa, giocata in massima parte sul tema dell’osservazione marina, la plasticità delle istantanee rispecchia mirabilmente un mare abbrutito e posto fuori da ogni melensa retorica: un mare forse papinianamente nemico o figlio degenere; più probabilmente fratello hikmetiano ma di sventura, dalla sorte indissolubile con la nostra. Un mare, volta per volta, “osceno” nelle sue lamentazioni rimuginazioni o crepitii, insensatamente affannoso nel moto ritroso dell’onda, brutto di rifiuti o mitili (smile): in questo senso anche parlare di “perfezione plastica”, a p. 78, è un abile doppio senso tutt’altro che celebrativo che il poeta usa per farci riflettere; del resto “il sublime straborda” (p. 93) e un viraggio chiaro non renderebbe la visione di una distesa marina consonante con lo sfacelo umano, che il protagonista avverte in sé come in tutti. La mer est ton miroir; e il canone all’unisono tra uomo e mare, in tonalità minore, si ha in una delle poesie più riuscite, a pagina 73. La cito per intero perché lo merita.

Addestrarsi alla povertà,
alla idiosincrasia plantare
alle orme, alle ruggini
alle mucillagini.

Un lungo sentiero di detriti
con un tetto rosato
cementificato nel cielo al tramonto:
non ci si abitua del resto abbastanza
allo spettro dei colori,
a questo abbigliamento di un giorno
e che poi muori anche tu
come certi origami putridi
sul bagnasciuga, come certi
tumori che il mare concede
agli albori.

Riveste un certo interesse anche la sezione di apertura, Meteorologia, con immediato rimando magrelliano. Detto dell’attenzione ricorrente verso l’ “evaporare”, qui molti passi indicano una forte tensione per la propria irresolutezza e la paura di un fallimento esistenziale, visto nel non avverarsi del progetto familiare e filiale. La contemplazione di se stessi allora prende toni molto duri, draconiani, in squarci che innervano le liriche di questa parte (troneggia la poesia di p. 32; notare la rima per strofe):

PROCRASTINARE

E poi accorgersi come il foglio spaginato
mostri l’esile ombra di un padre
già avaro di sperma e il figlio
in rincorsa ormai padre al suo posto,
una catena di Adamo dopo Adamo
che rema contro vento a
tanta assuefazione di pelli.

L’antefatto della procreazione,
la manutenzione del Creato,
la parodia della morte
che chiama a sé altri velli.

Proprio la realizzazione della famiglia, dal pericolo al lieto fine nel costituito “tondo Doni” con Scilla e il piccolo Diego, è il corso lungo cui fluisce la raccolta, tra le asprezze e la geografia degli affetti. Corso svelato del resto sin dall’inizio, grazie alla suddivisione tripartita: Estinzione – Terre di mezzo (si sarebbe potuto più efficacemente dire: Retroversione nello sguardo al passato e alle generazioni precedenti) – Estensione.
In questo senso la pregnante citazione volponiana può essere una riflessione sul ricondursi dell’umano (quindi anche della poesia, infiorescenza dell’umano) alla sua istintualità primaria di propagazione della specie, in rapporto alla quale una eccessiva introversione è dannosa: cansa ser, sentir doi, ma soprattutto pensar destrui (vedi anche, sul punto, Qohelet, poesia antica cinese, Giordano Bruno etc.).
E allora forse è fisiologico che, nel sospirato giungere al proprio fine, le pagine dedicate ai congiunti rivestano toni più rilassati e d’occasione, quasi da Sinfonia domestica straussiana. L’urlo animalesco si compone (un po’ si soffoca) in un quodlibet di celebrazione e ringraziamento. Del resto, remixando Leibniz, poesia non facit saltus rispetto a una ben riconoscibile modalità, direi anche indole, moderata dell’espressione, e attendo le prossime prove di Alessio perché i provvidi spunti qui ravvisati si traducano in una raccolta completamente in balia delle proprie viscere.