Francesco Targhetta, Perciò veniamo bene nelle fotografie (prima ed.)

Foto di Ifx da Pixabay

NOTA BIBLIOGRAFICA. La recensione che state per leggere si riferisce alla prima edizione del libro, ossia: TARGHETTA, Perciò veniamo bene nelle fotografie, Milano: ISBN Edizioni, 2012¹, pp. 247; dopo la cessazione dell’Editore, fortunatamente il romanzo in versi è stato riedito nel 2019, in una edizione ampliata che, naturalmente, meriterebbe (e magari meriterà) una trattazione autonoma da questa.


In breve. Si tratta di un libro riuscito e coraggioso, a ravvivare la tradizione del romanzo in versi che, nonostante l’antonomasia sia ferma ai due grandi dioscuri del genere – La ragazza Carla di Elio Pagliarani (rectius: “racconto in versi”) e La camera da letto di Attilio Bertolucci (rectius: “romanzo familiare al modo antico”) – ha pur in questi anni covato qualcosa sotto la brace; altro recente esempio significativo China di Maria Pia Quintavalla (Effigie Edizioni), che ho in scaffale e presto leggerò attentamente.
Targhetta si pone nettamente dal lato Pagliarani più che da quello Bertolucci. Si occupa di una società in trasformazione. Ci costringe al confronto, sociologico e personale-autobiografico. Per il sottoscritto, pur senza potersi identificare nella parabola dei protagonisti, la lettura si è concretata in un’esperienza-ossimoro, di esaltante lacerazione, come sempre quando un libro sa parlarti.
La trama, riducendo all’osso, ci vede assistere alle vicende personali del narratore-protagonista (dottorando in storia; soggetto, credo, almeno in parte autobiografico) e dei suoi compagni di appartamento e amici a Padova. Qualcuno andrà via, qualcuno resterà immobile; il nostro eroe subirà un declino che, accompagnato a un progressivo e indotto senso di colpa, lo vedrà rinunciare alle aspirazioni di carriera e indipendenza, persino – con relativo rituale di umiliazione – al tòpos familiare di non doversi “far vedere da uno bravo”, di poter fare a meno di uno psicologo; fino allo scorno di una certificazione, essa stessa problematica, del suo ristagno lavorativo ed esistenziale.
L’ispirazione poetica, sia stilistica che immaginifica, vola davvero molto alta soprattutto nella parte centrale del libro, che ha un inizio lievemente contratto – dovendo forse introdurre scena e dramatis personae – e un finale (ultimi due capp.) in dissolvenza in cui spicca un personaggio, il poliziotto-usciere, quasi kafkiano, che poteva giganteggiare se caratterizzato più robustamente.

Quantunque io non conosca i dati di vendita, l’elevato livello del libro avrebbe meritato, a distanza di quasi tre anni e mezzo dalla sua uscita, sorte migliore, diciamo pure una sorte clamorosa, anche premiale. A titolo informativo, la successiva raccolta di poesie di Targhetta, Le cose sono due, del 2014, ha vinto il “Premio Ciampi – Valigie Rosse”.


APPUNTI:

Tessuto e struttura narrativa.

1) Una società declinata attraverso i suoi rilievi autoptici, a partire dai luoghi fisici che sono pressoché esclusivamente i nuovi luoghi dell’anonimato (centri commerciali, sale bingo), descrivendoli nello spirito pagliaraniano di cogliere la trasformazione im/produttiva della società.

Nuove nomenclature (citando un titolo di Anna Maria Curci) che non lasciano posto al Baedeker, ai tradizionali riferimenti artistici e architettonici che pure a Padova o a Torino abbondano; ciò per rappresentare uno iato, generazionale e sociale, ma anche rimandando al coma irreversibile, anzi all’omicidio premeditato della cultura italiana (vedi l’accenno a p. 137 all’ “assessore alla cultura/ con la quinta elementare”).
Questo dato comunica con la declinazione costante dei principali attori cittadini, gli unici dotati di energia esistenziale: i migranti stabilitisi qui, le loro provenienze snocciolate senza razzismo ma anche senza solidarismo aprioristico: semplicemente consapevoli che si tratta di dinamiche ingovernabili, un teatro entro il quale la posizione ideologica è data né più né meno che dai rapporti di forza (p. 43): “le vie coi nomi degli stati/ non pareggiano il totale/ delle etnie degli immigrati, e tutti/ imbacuccati dentro giacche a vento,/ kazaki nigeriani rondisti albanesi,/ tutti stranieri che voterebbero a destra, in via Francia, Olanda,/ Svizzera tedesca”.
Talvolta, mercé il fenomeno di ghettizzazione volontaria o involontaria, luoghi fisici ed etnie si fondono tra loro: es. p. 6 “nelle panchine/ dove termina l’Alì”.
Dall’altra parte gli anziani italiani: ubiqui, inerti, plastici nella loro ostile persistenza (p. 178): “i pensionati/ che ti guardano male, e le nonne/ coi passeggini sono pura violenza,/ come l’occhio a randello/ dei due giornalai, e i vecchi che sputano/ provando a sfiorarti”.
In mezzo, un popolo studentesco e precario dai confini labili e sfuggenti, eccezion fatta per il vocabolario generazionale di band, brand, birre etc.; gruppo per certi aspetti sensibile alla forza gravitazionale del secondo ordine, quello geriatrico, almeno nella visione del loro non essere, prima ancora che “riusciti”, neppure voluti, contemplati (visione espressa ovunque nel libro e culminante nel bel passo di p. 184, riportato anche nel risvolto di seconda: “essendoci fatti/ addestrare per non servirgli a niente”).

2) Nei primi capitoli, accostati alle vicende presenti, gli episodi derivanti dalla guerra mondiale che è oggetto del lavoro di dottorato del protagonista. Attribuisco a questa narrazione parallela non solo il mero compito di chiarire la “vocazione impossibile”, preclusa, del narratore, verso la ricerca e la carriera universitaria; ma anche quello di far capire in qualche modo come all’origine di tutto ci sia stato un conflitto silenzioso e imperscrutabile, giocato in stanze di bottoni economiche e tecnocratiche, poi riversatosi su una generazione giocoforza incapace di focalizzarne l’evidenza sanguinosa (dunque incapace di reagire o di comprendere la necessità di un’esistenza emergenziale, di un’economia e di una socialità, di fatto, postbellica).
Per quanto riguarda la presenza del “crudo ammortizzatore sociale” (p. 195) della famiglia, essa si risolve soprattutto nella consapevolezza della diversa fortuna (“i salotti dei padri ci sembrano regge”, p.19) e tempra generazionale e nella tranquilla oppressione spazio fisico della casa in cui il protagonista torna a vivere (p. 179: “il modo più innaturale di invecchiare”), circondato da una discrezione pur consapevole di questa, sempre più frequente, non-naturalezza, quando la madre sveglia frettolosamente il protagonista per la chiamata dell’istituto scolastico (p. 169). Oppure, meno consapevolmente, quando la donna chiede una copia della tesi di dottorato per i parenti e il protagonista, prima di nasconderne gli altri esemplari in garage, comprende con disagio che ormai sono pressoché ridotti al rango di vanity press (pp. 145-146).

3) La chiusa di capitolo XXIV che dà il titolo al libro (p. 196) è una sentenza tranchant; in realtà, all’interno dello stagno, le caratterizzazioni sono ben presenti: il protagonista, Teo, Dario, Los e Arturo da una parte; Mara, Anna e Barbara dall’altra. Essi hanno tutti una psicologia e una “fabula” ben delineata. Quello che sembra davvero immobile è il quadro delle loro relazioni, soprattutto di quelle di coppia. Almeno in due coppie (reali o possibili) su tre, o tre su quattro se si conta il barcamenarsi di Dario tra le sue due donne: fa eccezione il rapporto tra (Mat-)Teo e Anna che si conclude “istituzionalmente” con la grande scena del loro matrimonio e riflette il successo lavorativo di Matteo, il più lineare, propositivo, realista e “in carriera” del gruppo; a ribadire che sine Cerere et Baccho (o meglio sine Mercurio et Jove, dei dell’operosità e dell’onore sociale) friget Venus. All’amore di Anna, indecisa tra coppia e carriera per poi scegliere bon gré mal gré, per significativa stretta di spalle, la prima, è dedicato un bellissimo squarcio naturale in chiusa di capitolo XIX, alle pp. 150-151:

Ed è poi alla cassa, e quindi fuori,/ nell’attesa di un autobus qualsiasi,/ che accenna a Teo, illuminata/ dalle luci dei semafori, ed è bello/ vederla stringersi nelle spalle,/ mentre ne parla, inalare con più/ forza le folate dei motori,/ nell’ondata gialla del sole/ che torna, ed è la cosa più/ simile all’amore che abbia visto/ da questa mattina, dall’altro giorno,/ dalla canzone sui piloti finlandesi,/ dalle scritte sui muri/ degli adolescenti straziati/ lungo gli alberghi abbandonati/ dietro la stazione dei treni./ E quando Anna parte/ verso le spianate di negozi/ di cibo per cani, rimani a fissare/ per tre minuti l’ordito dei cieli/ sereni, in città, come/ si infili tra i rami e i profili dei/ balconi, che non capisci/ mai se sono vicini | lì dietro/ o se sono lontani.

Teo e Anna si salvano, scivolando lui in un conformismo di attaccamento all’azienda (fino a non sentire più l’ingiustizia del proprio operato) ed entrambi in uno di mutuo per una casa in periferia.
Negli altri casi Dario, sin dall’inizio “fuori tempo massimo”, e Barbara sono una coppia travolta dal tedio dell’irrisolutezza; così come muore sul nascere “per irrealizzazione congiunta” il rapporto tra il protagonista e la bella ex compagna di banco Mara, apoteosi della frustrazione, del non detto, iniziato col corteggiamento intellettuale di un richiamo letterario a La ragazza di Bube, fino ad arrivare alla trista cerimonia dell’abnegazione nel fintamente distaccato consiglio relazionale (raccolto nella figura di un tecnico ascensorista).
A sé Los, che prende il volo del dottorato verso il Belgio e poi – forse – verso gli States, “riuscito a metà” nella misura in cui vive in una società più evoluta (e lo magnifica nelle sue telefonate, fin quasi a urtare un campanilismo latente nel protagonista) ma i suoi progetti vertono ancora sullo studio: magistrale l’episodio col parallelismo (p. 191 ss.) tra la casalinga masturbazione del protagonista (per giunta resa appena dopo l’immagine di un bimbo che nasce, con annesso implicito richiamo leopardiano al funesto dì natale) e la fiamminga avventura mercenaria di Los, a rimarcare che si tratta di due vite e alienazioni identiche, la seconda solo un po’ più fashionable.
Certamente è importante lo sviluppo (o meglio inviluppo) individuale del protagonista, praticamente condannato a un progressivo slittamento e a uno splendido pessimismo cosmico già dall’avvento della nemesi Gloria (nel cap. VI), dottoranda veronese attaccata (solo figuratamente, sembra) ai coglioni del docente senza ammettervi altri/e; mi sembra che l’immobilità generazionale sia dunque sublimata a un livello superiore e riflesso rispetto alla realizzazione lavorativa: nell’immobilità affettiva o meglio di un’affettività responsabile, di scelta e accudimento. Da notare, sul finale, il comparire marginale di una “ragazza Carla”, callipigia e sfuggente, che desta le attenzioni di Arturo.

4) Nei capitoli centrali – diciamo dal XVI al XXIV – del libro, i più ispirati, assistiamo al “cambio di sponda sociale”, anche se con sfumature e intensità diverse, del protagonista e di Teo. Da giudicati e vittime a giudici e carnefici, si potrebbe dire: il primo avviato verso un precariato di incarichi in sostituzione, il secondo verso una carriera nelle risorse umane cioè nell’arte rapace della deiezione lavorativa, alcune tecniche della quale sono snocciolate nelle conversazioni (cfr. pp. 132-133).

Qui lo snodo si fa raffinatissimo soprattutto a livello psicologico, a partire dallo squarcio di pp. 112-113

Io non lo so, proprio, ma cosa gli dico,/ a Dario, gli dico che non è ammessa/ resistenza che tenga, gli mostro/ questi occhi grigioblù, spaiati/ come quelli degli husky, perché a me/ questi asfalti adesso sembrano sole,/ vita questi appartamenti/ con porte cingolanti, e la muffa,/ le pizze nell’incanto della sera,/ parlando con Teo di pentatoniche/ e di come si rigano i gipponi,/ con i tramonti sul rimbalzo/ delle antenne telefoniche,/ e la missione, poi, le ambizioni,/ e il compito più alto (vedi)/ mi sembra quello che ormai mi sta/ sfuggendo – cosa gli dico, a Dario,/ dell’attrito scarso dei nostri impulsi/ sulle cose che sfumano via:/ come lo difendo?

che ricorda il bellissimo passo del “cielo contemporaneo” ne La ragazza Carla

“È nostro questo cielo d’acciaio che non finge/ Eden e non concede smarrimenti,/ è nostro ed è morale il cielo/ che non promette scampo dalla terra/ proprio perché sulla terra non c’è scampo da noi nella vita”

e che vuole rappresentare un semi-ottimismo conseguenziale alla circostanza dell’impiego, sia pur precario. Questo procedimento stilistico “pagliaraniano” di legare (con un certo cinismo) osservazione del cielo e stato d’animo positivo lo troviamo peraltro spesso nel libro, a partire da p. 9, al momento del primo insediamento:

E poi è bello, no? con questo sole/ che ti tramonta tra le mani fendendo/ di sbieco i palazzi, le macchine/ parcheggiate storte, la scia dei pini/ marittimi che inganna le betoniere,/ e copre, a sbuffi, i miasmi dei bidoni/ per l’umido e i vapori vaghi/ delle sere.

Tutto in questa sezione centrale, dicevo, si gioca in lacerti soggettivi del protagonista alle prese con l’insegnamento, un lavoro non suo (e lo ripete tre volte alle pp. 189-190, come un mantra una sentenza o le quattro note del fato in Beethoven o nella Lulu di Berg, a catarsi avvenuta). Lungo quest’esperienza, punte di dedizione e di autoconvincimento, prima solidaristico (p. 168: “toglierne alcuni, non dalla strada,/ non da borgate, ma dalla lega,/ dalle madri infoiate/ è un compito alto/ è un compito alto/ ti ripeti la mattina, guardando/ il telefono| ne basterebbe/ uno soltanto”; poi addirittura una tentazione leghista al momento elettorale di p. 126:

rivedi compagni delle elementari/ con larghe difficoltà nella scrittura/ di un tema che promettono Fuori/ di qui! | Niente moschea!/ fotografati con sorrisi/ da corvi, e la tua ics/ ti viene di segnarla sopra questi/ quadrilateri di Vandea, sopra/ il perimetro dei parcheggi vuoti,/ sulle rotonde a forma di pera,/ piuttosto che sui soliti stemmi/ che lasciano sempre tutto com’era.

poi ancora cosmicamente disfattista a p. 173:

meglio sarebbe una tragicommedia/ in cui tutte le cataste di attestati/ che accumuliamo nella foga/ degli anni si rovesciano/ sui nostri lombi friabili, in un caos/ disumano, e anche gli spettatori/ a morire di inedia sotto un master/ in business administration,/ in comunicazione management/ e nuovi media, e una voce fuori/ campo «tutti in fabbrica!/ tutti in miniera!»/ e così si avrà un finale/ di segretarie moltiplicate,/ una distesa di muratori a costruire/ case sfitte, disusate, e impagliatori/ di sedie, costruttori/ di gondole (il vecchio artigianato?/ finito!), e cartelli neri/ coi nomi delle ditte, finché,/ ecco, la mobilità sociale,/ deus ex machina, calata dall’alto/ in figura di macigno (…).

Per arrivare al culmine della tensione nella vera microstoria ideale, da attimo fuggente, del precariato che è quella di Giada, studentessa introversa e problematica alla cui salvezza il protagonista affida le proprie speranze di riscatto, almeno ai propri stessi occhi (p. 177: “hai intuito il senso di quello che fai,/ ma qui sei franato, senza cose/ da dire, bloccato al confine del sangue/ che hai”), senza riuscire a eludere i canini della macchina scolastica e sociale.
Dopo questo fallimento, udito per giunta telefonicamente e non di presenza, non scatta nel Nostro più nulla di propositivo, neppure verso la figura del “nipote-futuro perdente” di Teo (XXVII-XXVIII), verso il quale – predestinato a un grigio avvenire consimile – l’allerta è solo mentale. A lui e ai suoi sodali di sventura va l’ultimo grande slancio del libro (XXVII, pp. 223-224):

e tu lo vedi/ in pochi secondi nel suo destino/ ineluttabile – l’escluso, il travolto,/ l’umiliato – lo smunto – le stigmate di sconfitte/ che conosci per punti (l’orgoglio,/ lo sconcerto e infine, inevitabile,/ lo sterile, inutile, pentimento), al che/ gli vorresti dire che qualcuno, però,/ dovrà pur vincere, e non sempre/ gli altri, la solita dirigenza di gradassi/ con bandane e despoti pacchiani/ da commedie italiane, ma come fai/ a farglielo capire, tu, che/ ti fai scavalcare in qualsiasi coda,/ che non riesci neppure/ a far promuovere Giada, che appena/ si è presentata l’occasione,/ a Padova, ti sei messo da parte/ rinunciando all’intifada:/ come fai a dirgli che l’hai scoperto/ con dolore che ai perdenti per cui/ hai sempre tifato ormai non va/ nessun onore, ma solo sputtanamenti/ da ogni dove, e occorre/ incazzarsi di più, come fai a dirgli:/ «io ormai | no,/ ma provaci tu»?

D’altra parte, e per converso, mirabile è la trasformazione graduale di Teo da tagliatore di teste problematico (“che credi?/ Credi che non ci pensi?”, p. 114) a entusiasta («sono contento, è come tifare/ per la propria squadra di calcio», p. 227).


Struttura poetica

Irregolare e “atonale” (in particolare, quando si raduna in nuclei di endecasillabi piani o tronchi o sdruccioli, non giambica), passando con disinvoltura da microcellule anche trisillabiche all’alessandrino (doppio settenario: “salendo a Padòva, all’ora di pranzo”, p.133). La musicalità si ottiene attraverso regolari utilizzi della rima e dell’assonanza, con due caratteristiche: il frequente ricorso alla rima interna (omoteleuto; più frequente, a occhio, di quella esterna): “pensi allora/ di chiamare l’argentino, o di vederlo/ da qualche cinese che fa sushi/ nel vicentino, per cercare ispirazione/ nei suoi sabotaggi, perché tra/ i canali lisci e i faggi accoglienti…”; anche internamente al verso, p. 83: “nuova/ uno sguardo su Padòva”; e l’impiego, nell’assonanza, di parole straniere (etichette, nomi, gerghi) proprio a vivificare e rendere degno il vocabolario/prontuario generazionale: citando in ordine sparso, “Kwak/ città”; “performance reviews/ non regge più”; “comò/ amò” [nel senso di amore alla romana, ndr]; “preview/ quaggiù”; “Whitney Houston/ ingiusto”, etc.; [meno efficacemente] “même chose/ Axl Rose”. Ampio uso dell’anastrofe (incipit XVIII: “Buttarsi negli intrugli della vita,/ bisogna”; p. 131 “prima che anch’io,/ di siccità, vada a male”, etc.); qualche allitterazione (“dopo il dolce con Dario” p. 143) e qualche iperbato (“e ormai nelle pupille/ impresso il tragitto del diciotto sbarrato”, p. 14); insomma un buono e articolato strumentario stilistico.


Chiusura aneddotica

In piccolissima parte, il libro mi ha parlato anche per avervi ritrovato alcuni apparentamenti con le Cinquantaseicozze, che stendevo tra autunno 2011 e inverno 2012, quindi nell’imminenza dell’uscita del libro: il riferimento al Super Tele di p. 197 (cfr. XXXI) e il “quanto avevo da dire, dopotutto, l’ho detto” (cfr. XLIV). Incredibile come vi abbia trovato anche quasi pari pari, a p. 134 la scena di una mia poesia recente e inedita, che ho personalmente vissuto in Borgognissanti ad opera di uno sbandato (nel mio caso non un drogato ma un accattone tout court): se gli opponi un non ho spiccioli lui ti chiede un ventone. Quindi, se la pubblicherò (difficile), dichiarerò a piè di pagina questa somiglianza.
In chiusura un rammarico, acuito dall’enciclopedicità del libro che sciala nei riferimenti ad anni ‘80 e ‘90: viene usata a p. 224 la locuzione ad minchiam ma non ne viene dichiarata la paternità, che a quanto mi consta è del prof. Franco Scoglio, anno 1989. Tweetando con Francesco ho appena saputo che non ne era a conoscenza, e va bene così, dopotutto locuzioni e memi appartengono anche a chi li tramanda con sapienza poetica.