Eli was blind: i “Sonnets 1999” di Peter Russell

immagine: Ass. P. Russell / autorizzata per il pubblico domino (cfr. pagina wikipedia)

Il libro più importante che ho letto in questi mesi è senz’altro This Is Not My Hour di Peter Russell, ri-edito nell’ottobre 2018, dopo due quadrienni, dalle Edizioni Del Foglio Clandestino. Ammetto candidamente che questo volume, che contiene una scelta dei Sonnets 1999 ottimamente curata da Raffaello Bisso e arricchita da altri preziosi interventi, oltre ad allietarmi le ore della quarantena, ha colmato una vera mia voragine di conoscenza e iniziato a saldare il mio debito verso una voce autorevolissima, per giunta vissuta a lungo e spentasi proprio nella regione in cui vivo.
La mia lacuna ha fatto sì che arrivassi all’incontro coi versi dell’Autore senza mediazioni, senza apparato biografico o tecnico, e questo ha causato un impatto forse ancora più potente.
Ho poi cercato alcune opere e testimonianze in rete, altre ne sto ancora attendendo, ma mi trovo già d’accordo con quanto afferma in apertura di questo volume Leonello Rabatti (poeta nonché presidente della Associazione Peter Russell): rispetto a quanto mi hanno suscitato altre letture come il corpus Quintilii (qualcosa qui) o la celebre lirica Nietzsche a Venezia, «potremmo definire il sonetto come il contenitore del respiro poetico di Peter Russell, la sua perfetta misura». La motivazione di Rabatti è implicitamente proustiana, secondo il famoso aforisma chez Swann per cui “la tirannia della rima”, e qui anche della gabbia sonettistica, obbliga il poeta ai migliori risultati. Doveva averlo intuito anche l’Autore stesso, che in un’intervista del 2001 resa a Paolo Di Stefano (contenuta nel libro) afferma di aver scritti «quasi tremila» sonetti!
In questo mare sterminato ecco i ventidue lavori proposti qui, scritti (tra un mazzo di almeno 41) dal 16 gennaio al 20 agosto del 1999 (poco meno di un mese prima del settantanovesimo compleanno). Nei quali il poeta intreccia le tematiche che bene Bisso squaderna in sede di postfazione: «un imminente naufragio», certo il «congedo», ma di sicuro non un going gentle into that good night bensì «uno statement di poetica, reazionario e ironico (…) giocando – ma senza esagerare – alla vittima dell’ingiustizia sociale e culturale».

La struttura sonettistica che, sviscerata dallo studio comparato di Marco Baldini su ben cento sonetti di Russell, è prevalentemente a fronte ABBA ABBA e sirma CDE CDE, è l’arengo di un verso che, pur «dalla forte caratterizzazione anisosillabica rispetto al tradizionale pentametro giambico inglese», invero come il blank verse trovo spesso che “fili”.
In ogni caso, sin dall’incipit, è la verve di scrittura di Russell che domina la scena.
La necessità intima del poeta di fare i conti col disincanto e di dar fiato alla invettiva si stempera e resta fresca agli occhi del lettore mediante la assoluta padronanza ingegneristica-musicale e una cifra – intellettuale, prima ancora che stilistica – che altro non è che la piena vivificazione sapienziale propria soprattutto di Pound, “il miglior fabbro”. La cultura, in breve, è il miglior strumentario per interpretare e raccontare (per miti, archetipi, citazioni…) l’esistenza.
Russell, considerato “ultimo dei modernisti”, narra e soprattutto si narra non lesinando mai sul suo bagaglio letterario e culturale sterminato: dal mito alle scritture, ai richiami shakespeariani, danteschi etc. Oltre a quanto annotato generosamente da Bisso, per esempio, ho colto l’eco del Bardo anche in quel «And every handiwork must give us pause» che chiude il secondo sonetto; quella di Keats («steadfast as the [bright!] stars», sonetto 23), quella di Eliot non solo nella citazione della «waste land» ma nel trattamento di “past, present and future” dei sonetti 3, 18, 23, volta per volta distanziandosi o allineandosi col magistrale incipit di Burnt Norton. Molto altro mi sarà sfuggito; ed è questa sensazione di tesoro mai totalmente inventariato che rende affascinante la lettura e le riletture.

Il senso della fine e le problematiche che hanno costellato gli ultimi anni di Russell fanno sì che le ventidue poesie del libro siano intrise di pessimismo, individuale e collettivo. A lato dei versi del 1999 vengono proposti (in originale o in studio di traduzione da parte di Rabatti) pochi sonetti più risalenti: che differenza tra il tono di fine secolo e, per esempio il sonetto londinese (XXIX) del 1962! Tuttavia ciò che da allora si è perso in entusiasmo si è guadagnato in speranza escatologica: mi piace pensare, pur da agnostico, che Peter abbia vissuto l’ultima parte della vita nella soddisfazione per la Bellezza còlta (e cólta) lungo una vocazione poetica integralmente perseguita con scelta radicale sin dall’inizio, nonché nella fiducia per un «intangibile premio», citato nel sonetto 40, il penultimo proposto qui, che prendo come vero commiato e riproduco in originale e traduzione:

40
I stand outside the tedious time and space
Of marriages, alliances and posts.
I’d rather fill my cup, attack the roasts
And swill the port (or brandy as the case
Offers) and jovially nod, then chase
These undertakers, patronising hosts
Of hacks and quacks and quickly sodden ghosts,
Contracting lives ratlike to win each race.

Possessed by Beauty, unwilling to possess
Possessions being undesirable; —
Life limps from the apparences to the Real —
A pilgrimage with no reward but stress
On the illusory presumption of the fool
And the intangible reward the Pilgrims feel.

Peter Russell
Pratomagno,
19th August 1999

(Sto fuori ormai, da tempo spazio e tedio / di matrimoni, incarichi e clientele. Piuttosto / mi riempirei la coppa, affetterei l’arrosto / e darei dentro al Porto (o, in caso, Brandy) / e ammiccherei gioviale: poi / scaccerei beccamorti e protettori, / imbrattacarte, assessori e ciarlatani, / fradici spettri e topi di contratto, / e quanti intrìgano per arrivare primi. // Posseduto dalla bellezza, restìo a possedere / perché indesiderabile è il possesso; – / – la vita va zoppa, dalle apparenze al reale: – / pellegrinaggio senza premio, e insistenze / sulla presunzione illusoria del folle / e l’intangibile premio, che i Pellegrini sanno.)

Fin qui l’analisi – sommaria, per limiti miei – del volume, del quale consiglio fortemente a tutte e tutti voi l’acquisto, sia per debito verso un grande poeta, sia come sostegno a una microeditoria coraggiosa e necessaria. In calce all’articolo i dettagli del libro e i recapiti per info e ordini.

In coda, due commozioni.
La prima: è struggente la cecità che chiude in cerchio l’opera. Il primo sonetto, infatti, termina con un riferimento biblico – «Eli era cieco, e Samuele udì il richiamo» – che fa il paio con l’autografo riprodotto dopo l’ultimo sonetto: «Mi perdoni che non scrivo. Sono quasi cieco. Auguri. P.R.». Se la connotazione biblica del giudice Eli è prevalentemente metaforica, ossia miopia verso i misfatti della propria discendenza, è anche vero che in effetti stava perdendo la vista (Sam., 3:2), quindi la cecità – sia pure sentendosi Russell nel giusto, come Samuele, in tempi invece paradossali – connota il libro e il suo Autore da cima a fondo di una declaratoria di debolezza e incapacità «di cambiare una situazione che richiederebbe di farsi voce di un messaggio inquietante, rivoluzionario, eversivo di uno status» (così Bisso in nota al verso). Peter è un Samuele nell’anima ma è anche, teneramente, un Eli nel corpo affiocato, e anzi sembra auspicare l’arrivo di un Samuele in forze, che possa ricevere da lui il testimone della grande vocazione alla poesia.
La seconda commozione, invece, è più personale e extra-testuale, riferendosi a un’altra opera di Russell, ossia il miniciclo de Le poesie di Manuela (2017, traduzione dell’A. coi figli; riproposte sul lit-portal Laboratori Poesia). Entrambi, sembra, condividiamo l’empatia con un’enigmatica Manuela: lui col “fantasma” che ha ispirato queste poesie, io con una giovane suicida romana nei primi anni novanta; la notizia mi colse nelle brevi di cronaca e per alcune circostanze – tra cui il suo biglietto di addio, che conteneva le parole “inadatta alla vita” – non mi ha più abbandonato. Tanto che ho trasposta la figura di Manuela in alcune brevi prose e poesie, per culminare nella «mia sposa inconosciuta» in Cinquantaseicozze. Coincidenze come questa sfidano il caso (al quale pure non mi sfugge che restano riconducibili) e determinano tra scrittore e lettore legàmi indissolubili.


[Peter RUSSELL, This is not my hour. Studio e traduzione dei “Sonnets” a cura di Raffaello Bisso. Contributi di Leonello Rabatti e Marco Baldini. Milano: Edizioni Del Foglio Clandestino, 2018², pp. 126, EAN 97888902114]
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