Mark Strand e il Brentano Quartet

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Nei primi anni 2000, al grande poeta Mark Strand (Poeta Laureato, Premio Pulitzer, etc.) furono, separatamente e indipendentemente, commissionati due lavori da parte del Brentano String Quartet, quartetto d’archi novaiorchése (per citare una cara amica) fondato nel 1992. Al poeta fu chiesto in un caso di creare un poema ispirato a una singola partitura (Le sette ultime parole del nostro Redentore sulla croce, di Franz Joseph Haydn, ovviamente nella versione per quartetto, op. 51 / Hob.XX:II); nell’altro, di comporre facendosi ispirare addirittura da un trittico, benché assai breve (l’opera per quartetto d’archi di Anton Webern: i Cinque movimenti op. 5, le Sei bagatelle op. 9, il Quartetto op. 28, quest’ultimo in tre movimenti). Entrambi i progetti erano finalizzati a performance che facessero dialogare poesia e musica – con in più, nel caso di Haydn, una location evocativa: la Rothko Chapel a Houston, spazio di meditazione spirituale aconfessionale, ornato dentro e fuori da opere di Rothko e altri Artisti, dotato di una luce particolare.

La verve poetica di Strand non si fece attendere; nacquero così due poemi (formalmente: un Poema e una serie di Variazioni) che, oltre alle vicende esecutive che approfondiremo tra poco, hanno ricevuto accoglienza cartacea in una delle più belle raccolte del poeta canadese-statunitense, ossia Man and Camel (2006; ed. italiana 2007); di fatto, l’ultima raccolta propriamente in versi del Poeta che, nella successiva e ultima raccolta (Almost Invisible, 2012), sceglierà, salva una sola poesia, la prosa poetica. Il tutto, ovviamente, è confluito nell’opera omnia, le oltre cinquecento pagine di Collected Poems che Strand ha fatto appena in tempo a vedere (lasciandoci il 29 novembre 2014, nemmeno due mesi dopo l’uscita del libro, il 1 ottobre). Il volume con tutte le poesie è digitalizzato e in prestito gratuito su Internet Archive; alle pagine di questa edizione vi rinvierò per i testi originali, in questo modo: (CP, p. *).

Pochi anni fa, nel 2019, tutte le poesie di Strand sono state proposte anche in edizione italiana, per mano del suo storico e autorevole traduttore Damiano Abeni, con Moira Egan.
In questo articolo proverò a raccogliere le idee e a esprimere qualche impressione sui due lavori di Frost collegati a Haydn e Webern. Ovviamente sono avvinto dalla forte interazione tra poesia e musica classica, e oggettivamente si tratta di due testimonianze importanti dell’ultimo Strand, quello «in the autumn of my life», come ebbe a dire di sé in quel periodo.


Va intanto notato che Man and Camel (CP, pp. 417 ss.) inverte l’ordine temporale delle due opere, entrambe poste in coda al libro, separate da una sola poesia. Se le Webern Variations (CP, pp. 445-449) quasi concludono la seconda sezione, Poem after The Seven Last Words (CP, pp. 453-459) ne costituisce da solo la terza e ultima, suggellando la raccolta (e l’intera opera in versi di Strand, se vogliamo) in modo perentorio. Tuttavia, come apprendiamo dal sito del Brentano, lo spettacolo haydniano di poesia e musica è stato rappresentato due volte alla Rothko Chapel già nel febbraio 2002, mentre la performance weberniana arriverà (con “ospite a sorpresa”) esattamente un triennio dopo.

Io, a differenza del libro, seguirò l’ordine cronologico, cosa che mi fa gioco per poter iniziare dal progetto meno complesso dei due: Haydn/Strand.
La struttura del lavoro legato ai Septem verba (dove, tranne in un caso – Sitio, “ho sete” –, “parole” è sineddoche per “frasi”) è infatti piuttosto lineare: il capolavoro di Haydn – del quale ho avuto l’enorme fortuna di assistere a una prova chiusa col M.o Muti; ma questa è un’altra, troppo lunga, storia – è composto da una Introduzione, sette Sonate, una per ogni “parola” (eventualmente con un Intermezzo “cantabile”, raramente eseguito, tra le Sonate IV e V), e il finale che rappresenta “Il Terremoto” che squarcia il Tempio alla morte di Gesù.
Dunque, se ricostruisco bene da quanto si legge ancora alla pagina del Brentano, il quartetto esegue l’Introduzione; dopodiché Strand legge ciascuna delle sette poesie del suo Poema prima della relativa Sonata; a chiudere, ecce terræ motus.
Provando a ricreare la scaletta a distanza spaziotemporale, ho delle ottime sensazioni. Mi immagino che ne sia sortita una interpretazione estremamente emozionante e coesa, unitaria, dialogica tra poesia e musica entro un contesto – come specificano le note del Brentano – che voleva essere «secular rather than specifically religious, based on the universal human qualities evident in the story of the crucifixion and in the music». Dal canto suo, il Poema presenta meno difficoltà formali di traduzione rispetto a molta altra produzione di Strand, essendo largamente libero e sciolto. La sua forza è di aprire scenari esistenziali e filosofici, ma soprattutto di ribadire, catalizzandoli con la condizione Cristica umana e divina, alcuni temi ricorrenti – per esempio, il tratto Sofocleo che la verità e l’essenza delle cose sono spesso imperscrutabili/indicibili (persino, o forse ironicamente maxime, per lo scrittore: «a truth (…) but what it is no one would know. Not even the writer», recita la coda della terza poesia (CP, p. 453)). Un tratto che ritroveremo anche nelle Variations.


Le sette poesie meriterebbero una trattazione approfondita qui impossibile – ex se ma anche in rapporto a tutto il libro del 2006; per fare un esempio, la terza lirica (CP, p. 453), legata al passo: Mulier, ecce filius tuus. Fili, ecce mater tua (Gv., 19:26), rappresenta una situazione speculare a quella di un’altra celebre poesia contenuta in Man and Camel, cioè Mother and Son (CP, p. 438). Scelgo di provare a tradurre la quinta lirica del ciclo (CP, p. 455), quella legata al Sitio (Gv.,19:28). Qui, al pizzicato degli archi che – proprio come nel famoso Largo dell’inverno vivaldiano – rappresenta il rumore delle gocce d’acqua (dunque, psicologicamente, la loro percezione nella mente del Cristo assetato), Strand risponde con una poesia dall’andamento di anafora al modo infinito («To be thirsty… To say… To close… To see…», etc.) la cui preposizione, che purtroppo si perde in traduzione, fa pensare anch’essa al rumore delle gocce. Campeggia un senso diffuso e originario di non detto o dicibile (vv. 9-11) ma anche di imperscrutabile (vedi per es. il combinato di vv. 2-3 e della chiusa, con l’ultimo verso «nothing is more real than nothing» che cita alla lettera Beckett (Malone Dies), a propria volta influenzato da varie letture e con varie, dibattute “sfumature di nulla”):

Aver sete. Dire: “Ho sete”.
Chiudere gli occhi e vedere il gigantesco mondo
che nasce ogni volta che gli occhi sono chiusi.
Vedere la propria morte. Vedere le nubi oscurarsi
come il tragico drappo di un giorno di compianto. Essere colui
ch’è compianto. Aprire il dizionario dell’Oltre e scoprire
ciò che si sospettava, che l’unica parola che contiene
è nulla. Provare a aprire gli occhi, ma non esserne
in grado. Sentir ardere la bocca. Sentire l’improvvisa
presenza di ciò che, più e più volte, non fu detto.
Tradurlo e lasciare che resti non detto. Comprendere,
infine, che nulla è più reale di nulla.

(Mark Strand, Poem after The Last Seven Words, V, trad. RRCorsi)


Ascolta su YouTube la Sonata V interpretata dal Quartetto Emerson, per avere un’idea dell’accostamento (troverai anche il resto dell’op. 51, l’Emerson esegue anche il raro Intermezzo).


Enormemente più complessa è la analisi del progetto legato a Webern, analisi alla quale premetto forse l’arcinoto, e cioè che, dato il celebre stile “aforistico” del compositore, i suoi tre numeri d’opera ammontano a un totale di non più di trentacinque minuti, contro l’ora necessaria a eseguire il solo quartetto haydniano! Il rapporto di tre opere contro una è assolutamente ingannatore; ne consegue anche che con Webern il dialogo tra la musica e i versi può assumere cadenze particolarmente serrate, in particolare durante le sei Bagatelle, che durano in tutto più o meno cinque minuti.
E in effetti, dalla descrizione del progetto, il programma parrebbe disporsi sulla scia del precedente, col pattern “una poesia, un movimento”: anteporre anche qui, se interpreto bene, la lettura delle Variazioni Webern alle fulminazioni musicali. Si tratta infatti di quattordici quartine, corrispondenti ai 5+6+3 brani o movimenti.
Ci salta però subito all’occhio l’ospite a sorpresa cui accennavo: Mozart! Il Brentano, si legge, vuole riprendere la non infrequente prassi ottocentesca di presentare un’opera di ampio respiro inserendo tra i suoi movimenti arie o pezzi più brevi. E individua tale opera “lunga” in un quartetto mozartiano; nei tre interstizi del quale, dunque, saranno incapsulate le tre brevi composizioni di Webern, a loro volta precedute dagli «short poems», o più esattamente dalle stanze lette dal poeta…

Semplice, no? smile.

Giunti qui, però, ci mancano non pochi elementi. Il primo è sapere quale quartetto di Mozart, dei 23. Anticipo la mia fonte: si tratta del quartetto n. 18 in La maggiore, KV464, quinto dei sei dedicati ad Haydn (tout se tient).

Possiamo ascoltarne in rete l’interpretazione dello stesso Brentano. Qui il primo movimento, sul loro profilo trovi anche gli altri tre.

Internet mi ha fornito questa e altre preziose informazioni. Per esempio, che il poema è stato pubblicato nel one-issue magazine Final Edition, autumn 2004, mentre la prémiere dello spettacolo è stata performata il 27 febbraio 2005 alla Alice Tully Hall (presso la Juilliard, al Lincoln Center di Manhattan), e recensita due giorni dopo dal New York Times. Devo dire che la penna di Anne Midgette, critica di lunga militanza (prima al Washington Post, poi al NYT), mi colpisce per il linguaggio semplice e l’educata franchezza con cui esprime posizioni intelligenti e condivisibili – già nel titolo («Constructing a single moment by deconstructing many») ma anche quando osa supporre che dietro l’opzione mozartiana ci sia anche (non solo, sia chiaro) la «idea, unspoken, (…) to find a way to get an audience to sit through three pieces by Anton von Webern».
Nonostante l’articolo prosegua lodando il fruttuoso dialogo tra le partiture dei due compositori, io penso che sia legittimo e opportuno per noi brandire il rasoio di Occam e stralciare dalla nostra analisi il quartetto mozartiano per riprenderlo, casomai, in altra sede: da un lato, fuori dall’ottica dell’evento, possiamo sganciarci dall’indubbia problematica (presente in USA, figurarsi da noi) di attrarre interesse sulla musica non tonale; dall’altra, e soprattutto, abbiamo il compito di analizzare un nesso musica-poesia che coinvolge solo il binomio Strand-Webern, non Mozart (il cui KV464, tra i vari quartetti, è oltretutto di particolare rigore formale, e ci si dovrebbe dilungare criticamente molto).


Possiamo dunque a buon diritto concentrarci sul predetto “binomio” e soprattutto sulle quartine di Strand, The Webern Variations (CP, pp. 445-449).
Non va sottopesata la scelta del termine Variazioni, che ha tratto in inganno qualche recensore, deviandolo sull’op. 30 per orchestra, e in effetti farebbe pensare a un solo tema, non a tre partiture distinte.
A prescindere da questo elemento, peraltro non neutro, il poema sembra presentare una struttura fortemente coesa, poco frazionabile, per effetto soprattutto delle anafore o delle interrogative tra le stanze confinanti: del tutto assimilabili a delle indicazioni di legato tra le varie quartine. Ciò è evidente, per es., tra le stanze 8 e 9 (anafora «How easily…») o nell’ostinato di domande alle stanze 10-12. Se queste stanze venissero separate da episodi musicali lunghi, a mio parere perderebbero molta della loro tensione dinamica.
Ulteriore coesione, che si esalta maggiormente in ottica ermeneutica (dunque meno marcata in ottica di performance) è data da puntuali richiami tra strofe anche distanti. Richiami assai evocativi: tra gli altri, «pushing aside» (stanze 1 e 12); “sewing and stitching” o viceversa (stanze 7 e 13); soprattutto, un doppio richiamo al tema dell’indicibile: già visto nel ciclo haydniano, qui invece si declina in «no light to speak of» della stanza 10, per poi sublimarsi nel «not for us to say» di chiusura del ciclo.
L’ultimo esempio, pieno di contenuti, mi dà l’aggancio per accennare alla valenza tematica e gnomica del poema. Si può, sulle prime, essere tentati di ravvisare nelle stanze di apertura una dimensione “ecfrastica” (o meglio sinestesica) rispetto al dato musicale: per esempio, il «sudden rush» al primo verso può evocare l’attacco dell’op. 5 (Heftig bewegt, “mosso con impeto”); ancora, la stanza 2 potrebbe fare riferimento alla estensione minima dei pezzi di Webern, quasi confinanti col silenzio; dove «even the language of vanishing / leaves itself behind».
Ben presto però, con progressiva chiarezza, il poema si abbandona per intero alle proprie, autonome, tematiche ben definite: lo svanire nostro e di ogni nostra traccia (con accenti rilkiani: pensiamo soprattutto al passaggio «where we disappear is where we are» e compariamolo con la seconda Elegia Duinese); il ruolo di imperturbabile spettatrice della natura, che non ci dà appigli; la trama della vita che si mette nuovamente in moto senza di noi. Il tutto con la ormai nota impossibilità o inopportunità di renderlo con parole.


Non mi sento, almeno per ora, di provare a trasporre in italiano la complessità “tessile” e tematica del poema; elementi cui va aggiunta forse non una regolarità metrica, ma una musicalità ben percepibile in più punti (isometria di stanze, couplet, incipit) e che forse si dovrebbe provare a preservare, almeno in parte. Prima delle mie conclusioni, dunque, vi rimando al testo originale su archive, alla versione Abeni/Egan per chi vorrà procurarsela, e alla lettura integrale del poema da parte del poeta Pejk Malinovski, accompagnato da una selezione di passaggi weberniani:



La pagina da cui ho tratto quest’audio è stata una risorsa preziosa anche per altre informazioni sulle Webern Variations, come i dettagli della loro uscita in cartaceo (prima della performance) e anche alcune parole a commento da parte di Strand stesso. Oltre a quell’essere nell’autunno della propria vita, che ho citato all’inizio di questo mio ormai lunghissimo viaggio, Strand racconta di avere iniziato il lavoro con qualche dubbio, decidendo poi di dar fiducia al proprio istinto e costruendo le quattordici quartine, sulle quali si esprime così: «I didn’t want the development of the poem to be linear, I wanted real variations – that is, each of the sections belongs, but each is different».
Lungi da me contraddire un assoluto Maestro; nondimeno penso, e credo che la mia sommaria analisi del poema abbia anticipato il mio pensiero, che con l’esecuzione alternata di movimenti e quartine, cioè con la “decostruzione” citata da Midgette, qualcosa vada perduto su entrambi i fronti. Sul fronte poetico, della coesione interna che contra Auctorem (e contro anche la visione del Brentano, poiché ha ritenuto di allungare ulteriormente i tempi musicali tra le quartine, introducendo pure Mozart) il poema mi sembra indubbiamente presentare, ho detto abbastanza. Anche sul fronte musicale vedo alcune problematiche da mettere a fuoco. Principalmente problematiche d’ammanco: manca in Webern una sponda strutturale e programmatica, una condizione di partenza che agevolasse il dialogo tra partitura e poema; condizione che invece in Haydn (o meglio, nella tradizione di musicare i septem verba, che risale almeno a Orlando di Lasso) è in re, anzi in verbis. E ciò, forse, chiamava a ricercare tale condizione altrove, per esempio nelle peculiarità di ciascuna delle op. 5, 9 e 28 rispetto alle altre due. Ne cito a esempio una su tutte: delle tre opere, solo l’op. 28 adotta il metodo dodecafonico, seriale – le precedenti attuando invece una atonalità simile a quella Schönberghiana ante op. 25. E questa diversità musicale non mi pare riflettersi nel Poema (lo si veda pure frammentato in quattordici parti indipendenti, o continuo, per questo argomento non fa differenza); poema che quindi, in ipotesi, poteva essere più marcatamente aggregato in tre nuclei (formali, tematici) forti, da legare a ciascuna partitura.


Queste le mie “mixed emotions” di fronte a due progetti di dialogo tra poesia e musica entrambi sicuramente importanti, anche solo per l’immedesimazione e gli spunti che mi hanno suscitato.
Purtroppo siamo quasi al decennale della nostra orfanezza del Poeta; e i due programmi ideati dal Brentano giacciono «not currently offered», verosimilmente in doveroso ossequio alla memoria di Strand e per la sua insostituibilità come performer di se stesso. In tanta perdita, e in ottica di perpetuare attenzione critica e studio dei versi di Strand, ciascuna e ciascuno di noi può provare a ricreare il programma di sala e confrontarlo con altre ipotesi di equilibrio tra musica e poesia (lettura in blocco dei poemi e ascolto in blocco delle composizioni musicali; per Webern, differenti raggruppamenti delle quartine, differenti incroci con un’opera in blocco o movimenti di questa, etc.). Per agevolarvi nel secondo intento, oltre che per provare ad appassionarvi alla musica di Webern tout court, concludo partecipandovi l’interpretazione che di queste tre opere (e di quelle per trio d’archi) dà il Quartetto Arditti, forse la massima autorità in fatto di musica da camera dalla Seconda Scuola Viennese in poi. La trovate a questa playlist YT; buon ascolto e buona poesia, grazie per avermi sopportato fin qui.