Incredulità di S. Tommaso (2023)

Caravaggio, Public domain, attraverso Wikimedia Commons

La carnalità del capolavoro del Caravaggio è evidente per moltissimi studiosi e perfino per alcuni poeti i cui versi ho incontrato di recente. Non so se sia blasfemia spingere la mia visione fino a vedere nella ferita del Cristo una carnalità femminile; in tal caso mi scuso con chi urterò, ma tengo il punto. Del resto questa visione la ebbi già nel 2004 o 2005, cioè mentre scrivevo le poesie del mio primo libro, uscito due anni dopo. Se non sbaglio ebbi modo di ammirare l’opera in una mostra tutta dedicata al Merisi, probabilmente a Roma, forse a Firenze, non ricordo più. Ne nacque questa pagina che vi propongo – malvolentieri ma cosciente che quod factum infectum etc

Si legge male? Meglio! 😂

La lirica che dedicai al quadro sottintende questa valenza carnale e poi psicologica della ferita, ma, riguardandola con gli occhi stanchi di oggi, mi sembra fallire, di certo per lo stile immaturo, esasperatamente lirico d’antan, ma anche per altri due motivi: 1) si nasconde un bel po’ per quieto vivere; 2) vira troppo rapidamente sulla similitudine-reminiscenza personale (un’avvenenza ferragostana non còlta per timidezza, con visioni di “ritorsione” per il tempo a venire), sbilanciando la poesia, facendo apparire il quadro un pretesto.

Al libro d’esordio torno spesso, constatando con amarezza quanto alcune buone intuizioni abbiano sofferto sia di un io poetico impaurito che di uno strumentario inadeguato – «legnoso», come ebbe a scrivermi un critico tanto preparato quanto evasivo (mi sarei voluto giovare di altre sue critiche, ma ha smesso di rispondermi e non voglio torturare nessuno). Per questo stesso panorama di percezioni, in fondo esatte, ho rimesso mano anni fa ai Jeux de vagues, la cui riscrittura del 2019 apre La perdita e il perdono.


Quest’estate è invece stata la volta dell’incredulità di T., che oltretutto prova a non essere mera “riscrittura” ma anche auto-editing, dialogo della nuova poesia (e del nuovo RRC) con quell@ precedente. Appoggiandosi su alcune figure (anafore, bisensi tra cui uno forte in chiusura etc.) e soprattutto riequilibrando il rapporto tra la tela e la poesia; cioè lievemente riapprezzando – credo e spero – la componente ecfrastica (meno festivo: descrittiva) rispetto al vissuto. A corollario, un ovvio inquadramento nel genere (per me tutt’altro che minore) della metapoesia, e una gnome (meno festivo: morale della favola) forse stracotta (carpe diem, porto addosso i segni delle battaglie che non ho combattuto, e così via) ma a mio avviso mai del tutto superflua.

Vi propongo i miei sforzi qui sotto. Buona lettura e, qualunque sia il giudizio sui versi, forse mi premeva anzitutto mostrare come: 1) si debba essere sempre e oltremodo severi verso se stessi; 2) l’opera poetica, almeno per me, sia sempre “opera aperta”, anche a distanza di quasi un ventennio.


INCREDULITÀ DI SAN TOMMASO (2023)

Oggi salvo assai poco
della prima stesura 
della poesia. Assai poco di me, di quel torrenziale
narrarmi – soffocato, tombato in misticismi 
di Pavlov, in terribili eufoniche 
da legulei. Assai poco di lei, che non è morta 
sul serio, giù! Siamo solo svaniti.

Oggi salvo assai poco –
giusto un’accenno d’ecfrasi,
giusto «questa fessura: divina
volgarità di vasi sanguigni».

Col resto si può fare filastrocca,
apologia del dito di Tommaso:
il verbo si fa carne,
la carne si fa piaga, 
la piaga si fa vulva, 
la vulva si fa vulnus

Se non lo si perizia a tempo debito 
(magari congedando quegli altri due apostoli
vagamente voyeur),
il fulgido mistero se ne sta di là dal vetro
(il distico finale andava unito così).

C’è un’imposta:
è sesso, è senso, è pittura, è scrittura.
Non sta schiusa per molto. Va versata.