Tre poesie musicali di Bukowski nel centenario

La ragazza vicino a me disse:
“Dovremmo evacuare la città
ecco quello che dovremmo fare”.
Io dissi : “Preferisco ascoltare Joseph Haydn”.
(da “Underground”)

La casa natale di Bukowski, ad Andernach (Benutzer:Smalltown Boy, Public domain, attraverso Wikimedia Commons)

È appena trascorso il centenario della nascita di Charles Bukowski; per me durerà anche oggi, perché mi vedrò un documentario-intervista dopo pranzo.
Durante il lockdown ho ripreso in mano l’Oscar colle sue poesie scelte e mi è sorto un pensiero che posso recuperare per l’occasione.
Parto da lontano: il poeta è almeno in parte artefice della sua percezione. E copio qualche spezzone di titolo dagli articoli commemorativi di oggi, scorti sul browser delle news e in parte imperniati su titoli e correnti effettive:
Il vecchio sporcaccione; Lo scrittore dei perdenti e dei bassifondi; L’autore irriverente; Cent’anni di realismo sporco; La poesia cinica che illustra con linguaggio crudo tutti i disagi di una vita; Il poeta sbronzo; L’impiegato sbronzo (!!); Post-office e post coito (!!!)…
Cosa sembra rimanere dunque di “Buk” nell’inconscio collettivo, giornalisticamente mediato? Quello di essere uno scrittore “explicit”, convinto alcolista, dedito al sesso promiscuo, dal basso tenore di vita. Il poeta è artefice della percezione e lui non ha mai fatto misteri.
Non mancherà certo poi chi oggi avrà evidenziato la centralità “tematica” delle scommesse ippiche…
Il mio pensiero già di questo marzo, invece, era che non ho ancora trovato in apparato librario, se non in qualche sbrigativa paginetta in rete, una esauriente messa in evidenza della musica classica come elemento fondante della sua poesia migliore. Dovrei controllare un volume che ora non ho con me, però sono quasi sicuro di non averne trovato accenno neppure in una nota a firma di un fine conoscitore e diuturno recensore di classica, che nominerò dopo la verifica.
Eppure le poesie di Bukowski grondano di musica classica; spesso con semplici accenni, talora in modo più strutturato. Riporterò qui tre poesie arcinote imperniate sulla classica, che sono tra le migliori di una produzione torrenziale e incostante, a volte valida come qui, altre volte sfociante in “rants” o lunghissime anafore senza sviluppi qualitativamente significativi.
Ma anche a monte del verseggiare, mi stupisce come non si colga l’originalità quasi ossimorica di un Autore “dei perdenti e dei bassifondi” che (snobbando praticamente in toto jazz e pop) sublima, nutrendosene avidamente, un genere musicale, la classica, mai come oggi – duole dirlo – percepito come classista (curiosa, da gioco enigmistico, la variazione aggettivale) e refrattario a una fruizione paritaria.
Certamente il nesso tra uno scrittore del margine (benché tutt’altro che di sinistra o sociale) e un’arte a volte intesa come riservata a una élite mi sembra sostanzioso. A fortiori perché è un nesso sinergico: la musica qui gioca a favore della qualità poetica, dando il “la” alla verve immaginifica o fornendo al lettore, come gnome, la misura del fossato tra “gloria” ed esistenza dei compositori.
A latere, la vicenda dell’impazzimento di Wolf, benché romanzata, l’ho appresa proprio tramite la poesia qui sotto; da lì ai Michelangelo Lieder e alle Rime del Buonarroti il passo è stato breve e rapido.
Auguri, Buk, Hank, …Harry Martel!


QUANDO HUGO WOLF IMPAZZÌ

Hugo Wolf impazzì mentre mangiava una cipolla
e scriveva la sua 253esima canzone; era un aprile
pieno di pioggia e i vermi uscivano dalla terra
canticchiando il Tannhäuser, e lui rovesciò il latte
con l’inchiostro, e il suo sangue schizzò sulle pareti
e lui urlava e muggiva e piangeva, e
dabbasso
la sua padrona di casa disse: lo sapevo, a quel maledetto figlio
di puttana s’è fuso il cervello, ha finito di scrivere
il suo ultimo pezzo
di musica e ora chi mi pagherà l’affitto? e un giorno sarà famoso
e lo seppelliranno sotto la pioggia, ma intanto
vorrei proprio che la piantasse
di urlare a quel modo – per quanto mi riguarda
è solo un fesso, una checca, un imbecille
e quando lo porteranno via di qui, spero solo
che al suo posto
venga un bravo e serio pescatore
o un boia
o un venditore
di opuscoli sulla bibbia.

*

PIOGGIA

Un’orchestra sinfonica.
Scoppia un temporale,
stanno suonando un’ouverture di Wagner
la gente lascia i posti sotto gli alberi
e si precipita nel padiglione
le donne ridendo, gli uomini ostentatamente calmi,
sigarette bagnate che si buttano via,
Wagner continua a suonare, e poi sono tutti
al coperto. Vengono persino gli uccelli dagli alberi
ed entrano nel padiglione e poi c’è la Rapsodia
Ungherese n. 2 di Lizst, e piove ancora, ma guarda,
un uomo seduto sotto la pioggia
in ascolto. Il pubblico lo nota. Si voltano
a guardare. L’orchestra bada agli affari
suoi. L’uomo siede nella notte nella pioggia,
in ascolto. Deve avere qualcosa che non va,
no?
È venuto a sentire
la musica.

*

LA VITA DI BORODIN

La prossima volta che ascolti Borodin
ricorda che era solo un farmacista
che scriveva musica per distarsi;
la sua casa era piena di gente;
studenti, artisti, barboni, ubriaconi,
e lui non sapeva mai dire di no.
La prossima volta che ascolti Borodin
ricorda che sua moglie usava le sue composizioni
per foderare la cuccia del gatto
o coprire vasi di latte acido;
aveva l’asma e l’insonnia
e gli dava da mangiare uova a la coque
e quando lui voleva coprirsi la testa
per non sentire i rumore della casa
gli lasciava usare soltanto il lenzuolo;
per giunta c’era sempre qualcuno
nel suo letto
(dormivano separati quando proprio
dormivano)
e siccome tutte le sedie
erano sempre occupate
spesso lui dormiva sulle scale
avvolto in un vecchio scialle;
era lei a dirgli di tagliarsi le unghie,
di non cantare o fischiare
di non mettere troppo limone nel tè
di non schiacciarlo col cucchiaino;
Sinfonia n. 2, in si minore
Il principe Igor
Nelle steppe dell’Asia centrale

riusciva a dormire solo mettendosi
un pezzo di stoffa scura sopra gli occhi;
nel 1887 partecipò a un ballo
all’Accademia di Medicina
indossando un allegro costume nazionale;
sembrava finalmente di un’insolita gaiezza
e quando cadde sul pavimento,
pensarono che volesse fare il pagliaccio.
La prossima volta che ascolti Borodin,
ricorda…

(traduzioni di Vincenzo Mantovani)