Mario, il Mago e Thomas Mann al Forte

Thomas Mann nel 1929 (Nobel Foundation, Public domain, attraverso Wikimedia Commons – viraggio viola mio)

Sarebbe di sicuro un mondo migliore se tutte le persone che percorrono via Torino, centralissima trasversale di Forte dei Marmi, fossero prese da un tremito e almeno un prodromo di sindrome di Stendhal, sapendo a menadito che proprio lì, all’Hotel Regina, oggi privo della splendida facciata liberty d’inizio secolo (potete ammirarla nelle cartoline d’epoca, col nome della villa che poi è divenuta l’albergo, ossia Villa Vignolo), soggiornò con la famiglia, dormì, pranzò, passò il tempo Thomas Mann, futuro premio Nobel di lì a un triennio, nel 1929, narratore tra i più grandi di sempre. Ma non posso certo essere io a fare la morale a chi da via Torino si limita a transitare per andare in spiaggia, in passeggiata, al mercato del mercoledì o nei locali: la scoperta è capitata addosso anche a me pochi giorni fa, dopo anni di onorata (?) militanza sulla costa, solo grazie a una trasmissione televisiva di storia, ove si consigliava il racconto Mario e il mago non tanto per l’ambientazione versiliese quanto per una certa rappresentazione dell’Italia protofascista.

Il soggiorno fortemarmino di Mann si data all’agosto 1926 (“Anno IV E.F.” e, curiosamente, mese di nascita della ACF Fiorentina, da qui il mio viraggio viola “celebrativo” nella foto) e costituisce la base del racconto, redatto proprio l’anno del Nobel e ambientato nella località di “Torre di Venere” (il nome mescola il Forte e Portovenere), a quindici chilometri dalla più chiassosa e grande “Portoclemente”, ossia – credo – Viareggio.

Pur senza imbracciare un apologetico egocentrismo, voglio azzardare che la mia ignoranza affondi anche in una non eccessiva rinomanza della circostanza. E il motivo può essere che Forte dei Marmi (con la gens Italica in generale) esce maluccio da quella che già nel sottotitolo è definita come “una tragica esperienza di viaggio”. Altro motivo è che lo stesso Mann non se la cava a meraviglia, giudicando il circostante con tinte di nordica e altoborghese alterigia, comprese –  involontarie, penso – punte di “cummènda” quando nomina ogni Italiano come “meridionale” (d’Europa); e questa peraltro è una plastica e autorevole dimostrazione, a uso padani ma anche fiorentini, della celebre verità espressa da Bellavista-De Crescenzo, per cui si è sempre i meridionali di qualcun altro.

Vero è che il grande narratore non riceve certo un’accoglienza ambientale da futuro Nobel: paese e spiaggia caotici, etica di facciata, superstizioni epidemiologiche (sic! c’è anche questo attualissimo accenno), ingiustificate disparità di trattamento subite presso un “Grand-Hôtel”, prima del trasferimento all’invece inappuntabile Regina (unica isola felice, si direbbe, di una vacanza andata storta; qui chiamato “pensione Eleonora”). E forse la prima metà del racconto, dedicata alla location, è ancora più interessante di quella che invece dà il pretesto del titolo.

Il Mago, ossia l’intrigante Cavalier Cipolla, è protagonista per tutta la seconda parte di uno spettacolo di illusionismo collettivo (abbastanza pilotato e farlocco), che poi sfocia nel rapido esito tragico a due con Mario (un giovane gelataio). Esito che tra l’altro, nel voluto gioco tra realtà e finzione incarnato nella confusione dei bambini in dormiveglia, richiama da lontano il grande spettacolo a ventitré ore di Pagliacci di Leoncavallo. Proprio il finale tragico è, per ammissione di Mann e riscontro cronachistico, l’unica invenzione del racconto: al punto di far pensare male il sottoscritto; cioè che sia stato un espediente emotivo, oltre che narrativo, per calcare la mano sul soggiorno sfortunato. E che l’intera novella sia una sorta di “retribution” per una vacanza andata abbastanza “a traviate”. Mancando i siti di recensioni…

Sarebbe ovviamente miope ridurre Mario e il mago a ciò: pur nella generale sensazione di opera non indimenticabile e di canovaccio tirato abbastanza per la giacchetta, qualcosa da tesaurizzare c’è, come quasi sempre quando si leggono i giganti della letteratura.
Si è logicamente puntato il microscopio ermeneutico sulla figura di Cipolla, «il tipo del ciarlatano, del buffo chiacchierone»; figura che da molti viene ricondotta a metafora di MussoIini, visto come illusionista delle masse mediante l’arma dell’affabulazione retorica e persino oratoria; questa, forse, una ragione della scelta del nome, di dichiarata derivazione “boccaccesca” dal Frate Cipolla protagonista dell’ultima novella nella sesta giornata del Decameron. Come il chierico certaldese (1), anche il Cavalier Cipolla «Parla benissimo», sussurano tra loro gli astanti. E Mann: «fra i meridionali la lingua è un ingrediente della gioia di vivere, e a lei si conferisce un valore sociale molto più alto di quello che conosce il nord. (…) anche l’uomo della strada, quindi, non appena la cosa gli conviene per il suo effetto, si prova in scelte locuzioni e le connette accuratamente». 
Popolo di poeti
La padronanza della parola, dicevo, ma anche un altamente suggestivo frustino in mano (esibito, più che usato), avvicinano metaforicamente il Mago al leader fascista.
Addirittura – esagerando, anche a detta del curatore del libro: dando a Mann una virtù profetica che non poteva avere – qualche critico ha visto nel racconto un pronostico sul destino del dittatore.
Quel che è certo, i richiami testuali non mancano; per esempio in un passo sulla virtù del leader di alternare enfaticamente comando del popolo e obbedienza al popolo, virtù indicata come base del “contratto sociale” fascista (e indicata criticamente; ricordiamo, en passant, che Mann espatriò dal 1933 a fine guerra per le sue nette posizioni anti-totalitarie).

Da pur distratto habitué del luogo, però, ho trovato più gustose le descrizioni di Torre di Venere, del caos che ne popola[va] le spiagge agostane…

Un brulichio di bagnanti che gridano, si leticano, esultano, con il dorso spellato da un sole tremendo; barche dal fondo piatto e dai vivi colori con sopra ragazzi i cui nomi squillanti, gridati dalle madri in vedetta, riempiono l’atmosfera di rauca apprensione, dondolano sull’azzurro smagliante; i venditori di ostriche, bibite, fiori, coralli e *cornetti al burro* [in italiano, ndT], camminando sulle membra di chi è sdraiato, offrono la loro merce, anch’essi con la voce aperta e velata del meridione (…) Che ressa, il pomeriggio, nei caffè-giardino della passeggiata a mare (…) Si stenta a trovare un tavolo libero e le orchestrine, senza sapere l’una dell’altra, si danno confusamente sulla voce. (…) Insomma, il mese in cui conviene recarsi a Torre di Venere è il settembre, quando il grosso della folla ha sgomberato, oppure a maggio, prima che la temperatura equorea sia tale da indurre il meridionale a tuffarsi. (…) mentre, ancora in agosto, lo straniero trova il *Grand-Hôtel* (dove noi, privi di recapiti privati, avevamo invaso le stanze), invaso a tal segno dalla società fiorentina e romana che lì in mezzo egli si trova isolato, e può apparire come un ospite secondario.

E più avanti:

La spiaggia era ancora nelle mani del medio ceto locale: una razza, lei ha ancora ragione, apparentemente piacevole. era dato vedere fra i giovani molta sana grazia, molte belle creature – e tuttavia si era anche lì inevitabilmente assediati dalla mediocrità umana e dalla marmaglia borghese che, lo ammetta, per essere nata sotto questo cielo non è più affascinante di quella nata sotto il nostro.

Sogghignando a denti stretti alla descrizione delle categorie coinvolte, viene quasi da pensare che il mio “elitarismo” abbia radici teutoniche (rassicuro: è pura agora+socio-fobia); viene anche da pensare che la calata settembrina dalla Germania non derivi solo dalle ferie diversificate o dai prezzi agevolati, ma dall’avere usato la lettura di Mann come Baedeker…
Ripeto, e senza sviscerare quant’altro il racconto breve possa offrirvi: la sensazione è quella che alla base di questa idiosincrasia ci sia nel grande scrittore un certo nervosismo per aver semplicemente cannato vacanza. Una esperienza prettamente egualitaria (capita in pari misura a tutti, facoltosi figli di senatori di Lubecca e italici Fantozzi), la cui fallacia cognitiva forse è alla base del più bel precetto che ho tratto, all’inizio del racconto: la contraddizione intrinseca tra ricerca della quiete e suo effettivo raggiungimento.

il mondo, è risaputo, mentre cerca la quiete nel contempo la scaccia, piombandole addosso con il desiderio stolto e ridicolo di potersi con lei unire in connubio, illuso che dov’è l’uno possa trovarsi anche l’altra; e dopo aver piantato le tende in un luogo tranquillo, è capace di credere che la tranquillità ci sia rimasta.

___

[Thomas MANN, Mario e il mago* (con Cane e padrone° e Disordine e dolore precoce°,), 1920-1929, trad. Lavinia Mazzucchetti° e Giorgio Zampa*, Milano: Mondadori, 1955-, ebook EAN 9788852054884]

(1) = “…niuna scienza avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l’avesse, non solamente un gran rettorico l’avrebbe estimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano” (BOCCACCIO, Decameron, VI, 10, edizione cur. V. Branca dal sito liberliber.it)