Ottiero Ottieri, Diario del seduttore passivo

[seconda e (salvi felici imprevisti) ultima parte della riesumazione di quanto avevo annotato su Ottiero Ottieri un lustro fa – la precedente si trova qui]

Ottieri nel 1977 a una festa (ritaglio e viraggio ciano miei). Foto di Mario Biondi (Mario Biondi writer, CC BY-SA 4.0, attraverso Wikimedia Commons).

Diario del seduttore passivo (Giunti,1994), titolo-ossimoro d’ispirazione kierkegaardiana, è un libro composto da cinque poemetti: Monica Dreyfus, Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui, Sotto il mantello della rivalità e autostima, Le filippine, Il seduttore passivo. I primi tre si fanno ampiamente preferire, non solo in ragione della lunghezza, ma anche dell’inventiva e della coesione; del tutto trascurabile Le filippine; merita una qualche attenzione (non solo perché eponimo) il poemetto in coda.
Il gioco enigmistico, le rime interne, quasi scompaiono a favore di un andamento pienamente narrativo. Più serrata, con effetto deteriore perché non funzionale al racconto, l’osservazione dei fatti della politica (la Lega e Berlusconi, che si erano affacciati alla politica con grande risalto proprio negli anni di stesura), che spesso irrompono nei versi senza connessione.
Spiccata la verve egotica e apologetica: in queste pagine si vuole guarire meno che mai; qui si indugia più che mai in speculazioni filosofiche ed autoanalitiche, ci si perde con un certo vittimismo felice, si canta se stessi come eroi negativi. È un Ottieri abbastanza in forma, ironico, più cameratesco (in certi casi triviale) che alto. L’autore del risvolto di seconda – forse Enzo Siciliano, direttore della collana – asserisce riguardo a questa raccolta di poemetti che «comicità e dolore la colorano». Potremmo definirlo “un libro in fase euforica”, anche se è viva la coscienza della vecchiaia; e la propria compulsione per l’altro sesso, spesso peraltro risolta nell’evitamento del rapporto anche in età meno avanzata, ora si gioca consapevolmente in un recinto solo visivo e verbale, come negli appostamenti descritti nel poemetto finale. Nel complesso giudico l’opera inferiore alle precedenti, anche se non mancano spunti di buona fattura o comunque importanti in chiave analitica.

In Monica Dreyfus (che è una vagheggiata ma irraggiungibile degente ventenne) il poeta narra in prima persona del ricovero alla clinica La Métairie di Nyon, Ginevra: ora nel reparto alcoologico detto Jura, ora in quello più cogente «in riva al Lemàno» per la refrattarietà di Ottieri a seguire i corsi e i trattamenti. Il finale si avrà con la dimissione a seguito di colloquio finale col plenum direttivo della clinica: un provvedimento adottato con preoccupazione, a suggello dell’ennesima mancata guarigione. L’azione che viene raccontata si svolge dopo l’esperienza al Bicêtre de La corda corta ma prima delle esperienze pisana con Cassano e patavina con Gallimberti – cui comunque si allude ex post, durante il poemetto, come uniche salvifiche. Si veda a p. 10: «Ahi, nobile Cassano, non capivo | il behavior, tu solo | me lo spiegasti, | nell’Università pisana, | umanistica e umana!»; oppure la chiusa del poemetto: «Non vedevo ancora | il lume fatale | di Pisa, di Padova, | e quello della mia sposa infinita, | lume della mia vita».
Appaiono dei bei motti di spirito: «Ho bruciato l’Europa. | L’alcologo di Padova ha detto: | se lei brucia anche me | non le rimane che del vin brulé» (p. 18); «Rifondo il movimento | Agitazione e Disperazione» (p. 27); «Pregavo fortemente il Cristo. | Occupato. Riprovare» (p. 54). In un caso si è triviali al limite della misura: «Infinite le umiliazioni. | Non è capito e non deve | essere capito. | Ha vomitato sulla mano | d’una delle prime | contesse romane, | una volta in una fica» (p. 27).
Emergono in pieno anche la componente ansiosa – ben tratteggiata – e la compulsione al possesso femminile.
Il tono è subito quello eroico-autoapologetico che scorrerà apertamente lungo l’intero poemetto (p. 7): «Mi ci trovavo perché per bere sfido | la distruzione, la umiliazione, | il silenzio, la morte: | la birra è la sola sostanza che consola | le orrende | sofferenze della mia mente. | Che dite, amiche, | che nel mio disagio | mi ci crogiolo?!». Ben presto affiora anche la modalità dialogica coi medici curanti (compreso il flash-forward dei dialoghi coi Cassaniani).
Interviene poi il propulsore della riflessione che è il blocco creativo, la finzione di una ispirazione resa impossibile dall’alcooldipendenza e dall’ansia, soppiantata da esclusivi pensieri di concupiscenza; risultato è una fannulloneria aborrita nel sistema curativo della Métairie e ben presto “sgamata” da personale e pazienti – in particolare da parte di una «svizzerina di Losanna» e un’americana fissata sui corsi, che lo rottama sbrigativamente come «vecchio scrittor che si ripete».
La mente dello scrittore, nel suo vortice di pensieri confusi tra il ricordo dell’esperienza e il tempo presente, attraversa naturalmente l’autoanalisi per con-fondere, in un flusso di coscienza, il ricordo di Adriano Olivetti, la degenza pisana, un episodio di défaillance sessuale con un’attrice diciannovenne, il bisogno «sia di sesso che di gloria» (p. 23) manifestatisi sempre disgiuntamente in gioventù, e adesso scomparsi entrambi. L’indecisione relazionale del poeta è oggetto dei suoi stessi strali, mediante una dissertazione piuttosto cruda sulla propria incapacità di scegliere la partner affine (p. 30); del resto a p. 49 si legge quello che può essere preso a motto dei sessualmente ansiosi: «Non sono libero, sono costretto | a scegliere chi mi sceglie».
Spicca una vivida descrizione dell’ansia (p. 40):

Signora, replicai,
fate che innanzitutto
io non dipenda
dall’ansia.
Perché voi non conoscete
la potenza d’essa.
Rode, erode, scassa,
a seghetta, a mantice,
urlante, sorda,
fa muovere di corsa le gambe,
le mette in fuga pei corridoi,
gli spazi, le strade, i boschi.
Deh, sciogliete il movimento
da me fondato.
Deh, ridatemi la capacità
di stare.

Prima ancora, attraverso l’incontro con una cugina, il poeta denuncia un proprio, profondo stato di paura. È forse la paura uno dei fondamenti della costellazione di nevrosi e ossessioni, del “pensiero perverso?” (p. 35):

Ti lasci dire tutto, dice mia cugina,
perché non sei un buono, sei un codardo.
Ti lasci cagare sul capo
da una filippina di 18 anni
come ai tempi ti cagava sul collo
il Principe d’Assia.
Devi capire perché per tutta la vita
ti sei prestato alla beffa,
tu che non riesci a bleffare mai
nessuno.
(…) E dillo una buona volta.
Cessa di farti mangiare
gli spaghetti in testa.
Tu hai paura
d’incutere un’ombra di paura,
hai paura della tua ragione.
Hai paura della tua convinzione.
Hai paura di non farcela
a sostenerla.


Ne Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui va notata anzitutto la struttura dialogica tra “Io”, “Supervisore”, e altri personaggi che via via intervengono. È evidente come il “Supervisore”, che accompagna l’Autore (a casa, come al parco, come ovunque), non sia altro che la parte “razionale” di Ottieri, di fatto intento – come “Io” – in una serrata, complessa e azzeccata auto- ed etero-analisi, evidenziando come ciascuno veda bene (vanamente) se stesso quando riesce a uscire dalla propria prospettiva, nonché sappia dispensare analisi perfette verso occasionali “pazienti” (un’indiana; una peruviana; il portiere; la propria sorella Cora; un operaio dell’Alfa di Arese; un’infermiera in pensione; nonché, anticipando il chiodo fisso de Il martello, una “model”), sempre col bagaglio razionale, ironico e maieutico del Supervisore.
La risposta auto-analitica è un fenomeno paradossale o un riflesso: viene espressamente negata come impossibile a p. 69, sottolineando come richieda solitudine quando invece si evidenziano la compulsione verso la folla, verso la mondanità che ritroviamo in molti suoi poemetti, e viene proclamata espressamente la paura della solitudine. («Lei non riesce a star | solo nemmeno una domenica, | mi dissero. | Solo con l’auto andavo | per la campagna suburbana cercando»). Eppure è il fiume che scorre lungo tutto il poemetto!
Notevole è il dialogo con la sorella Cora (pp. 76-77): oltre a definire dialogicamente il titolo («Sei, senza volerlo | uno psicoterapeuta perfetto. (…) Tu sei un poeta | che sa fare solo | lo psicoterapeuta (…) Ma io sono uno psicoterapeuta | mio malgrado. | Sorella: Tutto tu sei | tuo malgrado»), qui si giunge alla confessione piena, retroattiva e senza “complimenti” del ruolo centrale della poesia in Ottieri: «Ma io sono un poeta (…) Ho sempre voluto essere | solo un poeta. Anche un poetino | Al massimo, un romanziere». Confessione tutt’altro che compiaciuta perché dal proprio punto di vista (p. 82) «Un poeta | è sempre un poeta di corte | cioè un magnaccia. | È la corte | che sponsorizza | il poeta. | La corte deve solo | trovare un buon poeta. | E può cacciar via il poeta | in favore | di uno migliore. | Per questo | il poeta è un esule».
In sottofondo viene toccato anche il problema dell’alcool-dipendenza; viene espressamente menzionato lo sciroppo Alcover, farmaco di cui Ottieri è una delle prime cavie italiane e che lo porterà gradualmente alla guarigione.


In Sotto il martello della rivalità e autostima il protagonista si trincera (assai poco) dietro i cognomi Sanzio (lui è Filippo) e Bisanzio (Ippolita, verosimilmente la moglie; Edmea, gli altri consanguinei). Tutto ciò per descrivere, nella propria Belverde, un ambiente mondano, teatro della propria dipendenza dallo sciroppo antalcoolico nonché del proprio impulso narcisistico e di conquista verso le pur congiunte Bisanzio (soprattutto la giovane modella Zea). In tutta la famiglia Bisanzio (prefisso accrescitivo che simboleggia maggior successo e valore sociale rispetto a Ottieri?), nonché nelle loro amicizie, è presente la “quasi specie” delle modelle «che sono le belle | più belle di tutte, perché sono la lucida | e morbida corolla d’acciaio, che spunta | sulle ferruginose leggi | del mercato libero» (p. 95, poi 98 con citazione verdiana e riflessione sul proprio narcisismo seduttivo):

Le modelle aiutano
a individuar le modelle,
così sfuggenti, in vestitino, nude fra veli.
L’intercambiabilità delle donne
è sempre stato il risvolto dannato
del Questa o Quella per me
pari sono.

E Zea, modella internazionale, porta Sanzio-Ottieri a fantasticare improbabili tratte ferroviarie Belverde-Mosca e a cantare sgangherate lodi (p. 112):

Mi sono innamorato
di Zea.
(…) Perché Zea è la top-modella
delle top modelle.
Perché ha sedici anni.
(…) perché è lunga, sottile ma procace,
dagli immensi occhi verdi,
dalla bocca tumida,
dai capelli più belli
di quella dell’Oreal.
La sua curva schiena-sedere
è più pericolosa pel maschio
della sopra-elevata di Lesmo,
i suoi seni ora sono bottoni,
ora pere.
Ella è intelligente e imbecille.

È evidente, anche per ragioni di età, come il pensiero perverso rimanga tale e che gli altri teatranti, Zea in primis, lo assecondino solo verbalmente, il che comunque non esime dallo scoprire l’amoroso biasimo di Ippolita per Zea: «adoro le mie sorelle che sono troie» (p. 127).
L’abuso dello sciroppo porterà il protagonista a un mal tollerato regime di isolamento casalingo e restrizioni – con il siparietto umoristico di una giornalista che telefona a più riprese perché lo ritiene recluso per sieropositività da HIV; condurrà a episodi clinici e farà terminare il poemetto con un coma da sovradosaggio da sciroppo (p. 134: «occorreva la scena madre») e l’internamento a Sarteano, Perugia.
Per chiudere, uno dei punti più sapidi è la entrée di una dei figli di Ottieri, la scrittrice Maria Pace, con effetto di satira e forse di abiura verso “Donnarumma” e la fase “sociale” della carriera letteraria di Ottiero (p. 132):

Entra la figlia che dice
con l’intelligentissima voce afona
che spezza il delirio,
col volto da attrice:
«(…) Il reddito della mamma
è apparso sul Corsera.
Non possiamo più fare i poveri né i pauperisti.
Non possiamo più fare i socialisti,
perché Alberto dice
che i socialisti devono essere poveri.
Se non sono poveri ma solo populisti,
non sono socialisti».


Gli ultimi due poemetti hanno estensione molto più breve dei primi tre. Se Le filippine, ispirato dalla badante di Ottieri, non mi offre spunti, Il seduttore passivo, oltre a essere eponimo del volume, stempera la sua non eccelsa qualità con alcune tematiche interessanti.
Da un lato l’ennesima donna bramata (una fanciulla avvistata a Belverde Scalo da aggiungere a Monica Dreyfus, Zea etc.) viene cantata stilnovisticamente; dall’altro c’è la accettazione del carattere passivo della propria seduttività (già dichiarato in Monica Dreyfus, p. 49) e in ultima analisi della identità tra seduzione e immaginazione: il narcisismo di conquista, che spesso peraltro si esauriva in un evitamento ante-conquista, trova ora requie nell’allietamento dell’immaginazione. Ricopio gli snodi di questo filone che quasi è una chiusura epocale e certamente una sorta di “guarigione”, a partire dal primo sprazzo “pucciniano” (pp. 143-145):

Mai vidi fanciulla
simile a questa
dalle guance di pesca.
(…) La fanciulla come una spiga
pensa di non soffrire più tanto
a solo rimirarla,
a rinunciare,
a realizzare il fantasma.
Egli è maturato?
Egli è invecchiato senza
bottino sufficiente, ma non s’aspetta
niente. Non attende
la dichiarazione di lei.
Se la donna si dichiara,
lui non si dichiarerà mai. (…)
forse la seduzione passiva
non è più attiva. (…)

Ei s’apposta.

Ogni giorno, all’ora
fatale.
Egli è giustificato,
essendo un poeta,
può impazzire senza troppo disdoro
per giovinezza e bellezza.

(…) Allietarsi immaginando
non è a priori peccato
né irresistibile dolore.

(…) La ragazza dello Scalo,
con cui vorrei integrare
il mio tardivo mondo,
mi darebbe ansie
da disgregare le stanze.

Peraltro il poemetto (e il libro) si concludono con l’interrogativo: «Quando | responsabilità | piacere darà?», quasi a insinuare che questo rappacificamento sia già sentito come irrimediabilmente vuoto e dunque l’equilibrio raggiunto sia tutt’altro che stabile.

Mi colpisce poi sul finale (p. 153) un elemento esplicito che forse va collocato in relazione con l’inadeguatezza di Sanzio rispetto al patinato “mondo Bisanzio” e messo – assieme alla tematica della paura ne Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui – alla base di molta parte delle nevrosi ossessive di Ottieri. Credo infatti che alla radice di ogni disturbo ci sia un elemento di rapporto coi genitori; qui, semplicemente e plasticamente: «Mio padre, il vero | de’conti di Belverde, | sosteneva che io | essendo come mia madre, | non so cuocermi un uovo».
Infine va notato come, con una punta di rammarico, a p. 147 sia scritto: «Egli è diventato, all’occaso | un poeta civile». Forse la poesia civile di Ottieri è soprattutto nella raccolta L’estinzione dello Stato che risale piuttosto ai primi anni Ottanta. Fatto sta che in questo inciso si ribadisce, sicuramente con parossismo dato dal sentimento del tempo, come l’alto senso civile o talvolta sociale siano visti come una perdita o una rinuncia rispetto al cantare l’erotismo, la “divina mondanità” o piuttosto la clinica e l’umanità che l’abita, coi flussi euforici e autoapologetici che in questo libro scorrono.


[Ottiero OTTIERI, Diario del seduttore passivo, Firenze: Giunti, 1995 (stampa 1994), pp. 155, ISBN 88-09-20601-0]
un percorso su Ottieri a cura di Demetrio Marra