Il “libro giallo” (solo nella copertina!) di Ottiero Ottieri: Tutte le poesie (1986)

Proprio ieri mi è capitato di estrarre “per fatale frivolezza” un libro di Ottieri dallo scaffale; ciò mi ha fatto ricordare in un flash che qualche anno addietro – forse, un lustro, in concomitanza con la lettura dei tre Poemetti riproposti proprio nel 2015 nella “bianca” Einaudi – mi ero proposto di leggere tutta la poesia di O. e recensirla/annotarla. Dopo essermi occupato di due libri (quasi sicuramente reperibili solo in biblioteca, ecco il perché della precedenza) la mia attenzione è finita altrove. Poi è passato gran tempo e naturalmente la formazione di una qualunque mia conoscenza “sistematica” dell’opera in versi è andata a gambe all’aria. Mi piace, però, rivedere e pubblicare qui sul blog le annotazioni più antiche. Qui a casa ho anche il volume Einaudi, nonché “Il poema osceno” e altro. Non escludo di scrivere anche di ciò, anche se probabilmente con assai meno energia e lucidità d’insieme…

Ottiero Ottieri (SconosciutoUnknown author, Public domain, attraverso Wikimedia Commons; viraggio “giallo” mio).

IL “LIBRO GIALLO” DI OTTIERI: Il pensiero perverso, La corda corta, L’estinzione dello Stato.

Un’edizione Marsilio del 1986 dalla copertina rigida gialla, ormai reperibile solo nelle biblioteche, ci dà conto degli inizi poetici di Ottiero Ottieri, ossia di quel cambio di direzione che ha portato un Autore proiettato con consenso critico verso la tematica lavoristica e sociale (Tempi stretti, 1957; Donnarumma all’assalto, 1959; La linea gotica, 1963) a imbracciare in brevissimo tempo un rigoroso e quasi alterum non recognoscens flusso poematico e autoanalitico. Una virata, per giunta accompagnata da compulsione alla mondanità, che suscitò tra l’altro, vien da dire ovviamente, il caustico epigramma di Franco Fortini, come lo ricorda la stessa figlia di Ottieri, Maria Pace, nelle pagine internet votate alla biografia paterna: «Come eri meglio ieri / Quando non eri noto / Nuovo devoto al vuoto / Ottieri». E una virata cui si è negata dignità critica sistematica; forse, surrettiziamente – persino qualitativa complessiva, quando l’unica prova poetica compresa nel Meridiano del 2009 con le cd. Opere scelte è Il poema osceno (prima ed. Longanesi 1996), prova di chiusura gigantesca ed epocale, ma giocoforza priva del valore epistemologico che avrebbe avuto qualunque cernita diacronica (di ciò forse si è accorta Einaudi con la ripubblicazione, sei anni più tardi rispetto al Meridiano, di tre Poemetti nella “bianca”).

Mi soccorre quindi, e anzitutto, questo volume col titolo curiosamente apodittico (e, ex post, fallace) di Tutte le poesie – con ottanta nuove poesie. Un volume, dunque, a metà tra il recupero e la novità.
S’inizia col primo esperimento convinto di Ottieri con la poesia, realizzato nel biennio 1968-69 e pubblicato da Bompiani nel 1971: Il pensiero perverso. L’approccio è formalmente timido: Ottieri preferisce parlare ab initio di «prosa ritmica» o «righe corte»; del resto ancora nel 1994 – Le guardie del corpo, seconda metà a carattere poematico del volume La psicoterapeuta bellissima (Guanda, provvidamente rientrato in catalogo), scioglie l’ossimoro formale del “racconto / in versi” calcando sul primo termine: «racconto in cadenza». Approccio timido ma, sotto la buccia reverenziale per i “veri poeti”, già deciso e potente: del resto nel giro di un ventennio ogni reverenza sostanziale sarà silenziata e la poesia, nata verosimilmente da un blocco narrativo, sarà un mezzo di espressione primario e paritario rispetto alla narrativa stessa, anzi forse superiore per vocazione («Ho sempre voluto essere un poeta», scriverà Ottieri ne Lo psicoterapeuta perfetto malgrado lui, edito sempre da Guanda nel 1994 nel volume Diario del seduttore passivo), certamente – lo dirà in un’intervista a Lea Vergine – per capacità di rappresentare i propri processi mentali che sin dall’inizio costituiscono l’oggetto principale della sua attenzione.
Questa prova prima (se si eccettuano i deboli versi adolescenziali in coda al “libro giallo”, dai quali non traggo spunti) si situa in pieno territorio autoanalitico (viene da citare Cecil Day-Lewis: «We do not write in order to be understood, we write in order to understand») e determina l’andamento principale del dire in versi ottieriano: non solo e non tanto una “pista cifrata” per cui non si sa mai dove si va a parare, secondo la nota definizione della moglie Silvana Mauri, ma piuttosto, a mio avviso, una navicella spaziale limitata nella propulsione ec-centrica, calamitata dalla irresistibile forza gravitazionale del sistema binario ego+nevrosi.

Frammentato in sezioni brevi, spesso di una pagina o poco più, Il pensiero perverso ha la massima forza negli incipit, in molti dei quali vengono scandite molte delle problematiche dello scrittore e la selva di trattamenti a cui all’epoca si è già sottoposto, quasi sempre con ricadute. Ne riproduco alcuni in rapida successione e volutamente senza soluzione di continuità:

Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo | lasciato libero dal pensiero ossessivo;
Lungo è il pomeriggio del dolore | noioso;
Deve affrontare la vita senza le spalle | coperte dall’arte | e l’arte con le turbe della vita;
La depressione del mattino | non ha miraggi di riscatto, | si attesta ormai come una vita infinita. | Ha dinanzi l’insano | vagolar del pomeriggio, | e la sera non fiesolana, | la sera che sbrana;
Disturbata dal nodo è l’alta mente. | Alto il livello dell’ansia. | Tutto ei provò. | Lo chock, la medicina, la fonda psico- | analisi, il movimento, | la quiete, l’ozio, solitudine e liete | brigate, letteratura e vita;
L’ansietà del vivere gli impedisce | di scrivere. | Frantumata la vita l’ambivalenza | sfarina l’arte. | Teme la vitale occasione perduta. | Occasione, | che altri giochino mentre lui | studia. | E sempre l’occasione si fa doppia. | Deve essere in due luoghi e ovunque | di continuo sempre | onnipotente, | impotente. | Non si sa | mai. | Il dubbio s’alza come il vento. | O sfrena o ferma;
È tempo – Lui ripete – di montare | a cavallo del pirla, ora di finirla | con l’immane mente, la cerebrale galassia;
Gli spasimi della crisi di nervi | massimo dell’orgasmo, colmo | ripieno e stracciato della solitudine | provocato dal puro conflitto del pensiero | lo sbattono per terra. Batte la testa | al muro, gli occorrerebbe un casco;
Unicamente l’alcool libera il petto | e la mente, privilegiate sedi | del tubo e del piombo, della nuvolaglia | che non caglia, della gramigna ossessiva | germinante come il germe solitario;
Risibile personaggio | (il depresso ha sempre torto) | onnipresente, impotente, | balla sulla sedia si sposta, | ogni sera è una giostra | di cocktails di mani, di piedi, | di pranzi in piedi. Can da tartufi | seduto ove si balla, | in piedi ove si siede. Come si presta alla beffa | l’inquietudine mondana | mondiale ossessiva e lesta;
Ha scelto di nuovo l’avventura | ideologica casta, | il sodomitico intelletto, ha scartato | il colpo narcisistico. | Gli ha stretto un braccio | ma c’è sempre l’inganno. | L’abbandono comincia prima dell’abbandono, | panico aperto, rischio spalancato, | non ha il ponte per passare il torrente | il cuore forte | per la tentazione d’altro cuore. | Non gioca per non perdere mai, | se gioca si perde. Se si perde cade | in un sesso depresso, | in una supina giacenza solitaria.

Un vero e proprio compendio anamnestico: questo poemetto, anche se forse non il più riuscito in assoluto, è fondamentale perché contiene l’RNA di quanto di là da venire, se si eccettuano le specificità dei singoli luoghi di ricovero e dei transfert amorosi. Anche la modalità del dire riceve da questo esordio direttive importanti e cogenti per il prosieguo dell’opera poetica, quali l’abbondanza di rime (esterne e interne), assonanze e citazioni (avrete captato anche un D’Annunzio) e una confessionalità estrema spinta sui nomi e sui cognomi, senza remore legate all’altrui privacy.
Cos’è il pensiero perverso? Sfilano come mannequin, in queste aperture liriche, ossessione, tedio, ansia, depressione, compulsione sessuale, spasmi nervosi, alcooldipendenza, nevrosi mondana e – culmine di tutto – abbandono narcisistico per paura del fallimento sessuale, ciò producendo ulteriore repressione e ansia che alimenteranno il meccanismo ricorsivo. A ciò si aggiungono particolari come la descrizione del rito dell’elettrochoc (p. 41) e, in corrispondenza del succo ossia dell’ossessione mondana narcisista e “bianca”, punte aguzze di sarcasmo verso se stessi: «Vergine nell’erezione cerebrale permanente», «pseudo playboy che non scopa», «cela | nascosto nel fondo di un tubo | la barzotta vela | della tensione permanente» e così via (pp. 60-63).
Dopo l’acme descrittivo dell’abbandono (p. 58), da p. 61 il poemetto ha una netta virata testimoniando l’esperienza psicanalitica. Il Nostro “scrive al Padre”, disattende partenze e progetti, li crea e li distrugge; «Oltre non amare | non lavora, perché pensa. | Il suo lavoro è il pensiero perverso» (p. 76). Da p. 82 questa fase si lega al personaggio dello psicologo Giancarlo (il celebre Giancarlo Zapparoli), il cui approccio nel prosieguo delle opere verrà indicato da Ottieri come perdente rispetto al più risolutivo approccio psichiatrico di Cassano a Pisa e alcoologico di Gallimberti a Padova.
E in effetti il poema termina, in modo cupamente interlocutorio, con una sostanziale sconfitta di fronte a una depressione non placata dai farmaci (del resto antipsicotici – Serenase – più che serotoninergici). Le pp. 97-99 (quest’ultima qui di séguito) tratteggiano splendidamente una battaglia tra impulso di fuga e inazione, prima della descrizione di una routine ansiosa paralizzante, lunga un’intera giornata, sulla quale la tela cade con finale aperto, vedendo nonostante tutto Ottieri «acquattato | al di qua della vita umana»:

Aspettava al buio
il sussulto dell’impulso,
si nascondeva fra le mani nella stasi
che fila il cappio come un bruco,
nell’ampio buco.
Non ci sei più tornato, sedevi e sedevi,
ti alzavi un momento fingendo di andare,
quasi quasi ridacchiavi. Andare?
Ma il tuo posto è in questo pensamento
assiso, la sedia intensa
come la torba,
lo sguardo che legge
le strisce interiori.
A testa china pareva che pregasse.
Ei soffre il consueto
danno anancastico
di fronte al giovinetto
psicologo, alla signora, alla
femmina che vede nel Rorschach.

AGGIORNAMENTO 2022: Interno Poesia ha riedito Il pensiero perverso. Qui alcune mie considerazioni aggiuntive, legate al volume.


Nel 1978 esce, sempre per Bompiani, La corda corta, che a mio avviso rappresenta una delle prove più alte e coese dell’Ottieri poeta, forse quella in cui la necessità di scrivere quanto più esaustivamente del proprio disagio si accompagna alla maggior finezza poetica, con sprazzi lirici e immaginifiche sequenze oniriche.
Dedicato al cognato Luciano Mauri, tripartito (le sezioni sono: Alle betulle – Gli altri o le proiezioni invidiose – Il gusto del disgusto), il poemetto ha la caratteristica narrativa di avere un protagonista che non è più lo scrittore stesso bensì il giovane Pietro, che peraltro è scopertamente l’alter ego dello scrittore, ciò che è espresso anche da riferimenti e particolari combacianti.
Troveremo questo escamotage anche in un poemetto del Diario del seduttore passivo (ossia Sotto il martello della rivalità e autostima). Qui c’è di più: l’io narrante non è più in prima o terza persona, bensì una figura femminile, una co-degente “alle Betulle”, ancora piacente e madre di due figli; donna che troviamo incardinata nell’azione nella prima parte, ma che dopo la dimissione, al termine della prima parte, seguirà solo in spiritu Pietro nelle sue vicende milanesi e parigine.

La clinica della prima parte è Le Betulle di Appiano Gentile (il fatto che Appiano ospiti anche il Centro Sportivo della mia Inter, La pinetina, con possibile ipotesi di ricerca di un nesso – comunque felice – tra interismo e psicosi, non mi è ovviamente sfuggito). A Le Betulle, dirette dal dott. Ferzetti, Pietro-Ottiero è finito volontariamente per essere (p.119) «fuggito dal tuo [psico]terapeuta» (prima ancora, p.109): «E la mano ti tengo dai digestivi sottili | in cui stanno acquattati gli alcoli più vili, | l’inizio del suicidio lento per cui | volontario qui tu venisti, | per evitare la fine che desideri | e non vuoi, defatigato dalla lotta | col psicoterapeuta neutrale che dice: | “Non berrà più quando sarà guarito”». Le Betulle curano l’alcooldipendenza ma anche la depressione sottostante («l’ansiolitica flebo» mattutina di Anafranil, p.108), e altre forme di dipendenza come quella tossica (magistrale troncamento a p. 128: «E vennero gli eroi-/ nomani»).
Ci troviamo sicuramente in uno Zauberberg ad altitudine zero – efficacemente descritto in apertura come rifugio, mediante il suo prato, «piatto volante fermo che protegge | i melanconici in eccedenza ricchi». Una “pianura magica” cui Pietro tornerà più volte, oscillando tra la sensazione della guarigione e il conforto della seclusione in una comunità ove ci si sente finalmente protetti e protagonisti rispetto alla devastante umanità allargata (sia pur attratti dalla mondanità). Qui Pietro è conscio del proprio ascendente («Intanto affascinavi, | o pluripotente») e dell’attrazione che esercita sulla narratrice, e si muove da pari a pari con gli altri degenti, descritti con estremo realismo – a partire dalla storia clandestina dell’avvocato Properzi con la “Dama Bianca” (pp. 120-121).

Soffermiamoci però ancora sulla narratrice. Ella sin dai primi versi dichiara un rapporto di complicità sessuale (forse a livello di petting, forse all the way) che però non porta a monogamia o a sentimenti reciproci, perché Pietro la “tradisce” con la «maniacale ninfetta!» (p. 113) del reparto. Nel frattempo si fa avanti un facoltoso corteggiatore della donna, che lei rifiuta in nome del «ragazzo fallito | che a stento non sviene all’odor della vita», sotto le cui coperte corre tosto a infilarsi.
Vale la pena sottolineare come in questa donna ci siano anche tratti di Giocasta / figura materna – «Ti diedi la mia piccola mammella che adoravi» (p. 125). La sua stessa essenza, almeno per due terzi del racconto in versi, sembra essere smaterializzata, simbolica, di donna perfetta che il protagonista cerca in altre. Le fallimentari esperienze di Pietro vengono ripercorse dalla narratrice e messe in fila per nomi: alla pura carnalità con la ninfetta seguono la fuga con biasimo della moglie Claudia e l’incontro platonico prima con Letizia, annoiata convitata a una festa in cui si estrinsecano la compulsione mondana e alcoolica; poi con Laura, «piena di grazia, grigia di tristezza… quasi desiderabile dama grigia» incrociata nel secondo ricovero volontario alle Betulle. Letizia si nega per non tradire il marito; Laura forse riecheggia un anelito pertrarchesco/platonico nel protagonista, che le nega persino un bacio durante le passeggiate. La voce fuori campo però è netta nel definire Laura: «ombra di te, ombra di me» (p. 139). Quasi a simboleggiare – e in questo senso potrebbe trattarsi di un inciso forte a livello ermeneutico – la necessaria frustrazione della recherche del compulsivo, con un inutile barlume di consapevolezza che l’obiettivo della propria ricerca è noto e lontano.

Dopo una seconda dimissione, un terzo ricovero volontario e un blocco ansioso, Ferzetti dispone il trasferimento di PietrOttiero allo storico ospedale parigino di Bicêtre. Qui l’alcooldipendenza viene trattata e curata mediante l’emetico dell’apomorfina e – terza parte del poemetto – il deterrente estremo dell’Antabuse, che può perfino risultare mortale quando combinato con l’alcool.

La sezione centrale del poemetto, Gli altri, è dedicata quasi per intero all’esperienza della depersonalizzazione di Pietro (p. 150): «Pensavi, guardando il mattino il sole, | la tenebra la notte, o la stordita | vaghezza del crepuscolo, o l’interrogativa | aurora. Eri divenuto | Niente. | Fu allora che ciascun pomeriggio | cominciasti ad essere un altro».
In concomitanza con quest’esperienza febbrile, la narrazione in versi assume quasi fatalmente forza immaginifica.

La carrellata di personaggi che si susseguono nella mente di Pietro è notevole e variegata, ricca di personaggi famosi e amici. Ben rappresentato è l’inconscio teso verso il muliebre: Pietro crede di essere il traslocatore Achille per «la bella moglie», il «nobile vaccaro di Lomellina» per il suo «harem di donne»; ma compare anche il transfert verso i curanti (p. 153: «Preferisci per ora | le infermiere alle donne») che sarà basilare ne L’infermiera di Pisa (prima edizione Garzanti 1995, poi riedito nel volume Einaudi dei Poemetti 2015). E c’è un significativo momento dialettico, di antitesi al dongiovannismo (cfr. la prima poesia de L’estinzione dello Stato, in cui Ottieri si descrive come «un dongiovanni monogamo») ove Pietro si depersonalizza in se stesso (!) e narra del fidanzamento sessualmente complesso con la moglie, nonché del rapporto con l’autoritario suocero.
Compaiono poi personaggi famosi: Pasolini, Antonioni… Abbado! descritto con una bellissima lirica, uno degli sprazzi migliori di sempre di Ottieri (p. 170):

Il dì seguente a Michelangelo eri Abbado.
(Pollini ti spaventa così solitario.)
A larghe braccia e sottile bacchetta
levavi nel pianissimo lentissimamente
come una lumaca il velo dell’orchestra
o lo scatenavi bucando l’occhio del
ciclone del coro. O infilzavi l’orchestra
e non dirigevi più ritmando ma davi
un colpo diritto di spada;
scalzavi il golfo mistico
dal velame a un fragore armonico di stelle.

E soprattutto Moravia (p. 158), qui dipinto con invidia benevola ma disamorata nell’atto della sua giornata di scrittura e relax:

Il pomeriggio seguente eri Moravia a Roma.
Ti alzavi ogni mattina alle otto e senza dirigente
seguitavi il lavoro dirigendo te stesso.
Spesso battevi sui tasti
cercando armonia sulla macchina
da scrivere come su un piano
senza partitura né melodia.
Dallo strumento nasceva intelligenza
e poesia, dall’alfabeto a caso
della tastiera un’opera si componeva
per testardaggine, vocazione e sintonia
fra osservazione, tavolino
antica bravura e stile. Dopo il mattino,
Moravia passeggiava e leggeva,
la sera forse si annoiava
se non navigava nel suo amato
d’Africa deserto. Scivolava sul Sahara
come un navigatore solitario.
Tu ammiravi e guardavi le sue ragioni
o razionalizzazioni, anche se non le amavi.
Carbone dai filoni d’oro. Amavi
la sua India, la sua indifferenza e la sua
Noia, la sua scrittura d’acciaio,
la schiena di lucido ferro.

Bene: troveremo anni più tardi, ne Il palazzo e il pazzo (prima ed. Garzanti 1993, poi riedito nei Poemetti Einaudi 2015), il sarcastico «carbone dai filoni d’oro» sublimato in una vera e propria invidia e biasimo verso Moravia, visto come archetipo dello scrittore di successo perché presenzialista; cosa che Ottieri, nonostante gli ammonimenti a “farsi furbo”, non riesce proprio ad attuare. Vero totem emotivo, Moravia comparirà ancora, con modalità narrative simile a queste, nel poemetto Monica Dreyfus (sempre in Diario del seduttore passivo, 1994).

Dopo la depersonalizzazione in un amico ansioso, si accede senza soluzione di continuità all’ultima sezione, Il gusto del disgusto; introdotta (p. 179) da una visione enigmatica di Marina Lante Della Rovere, che per Pietro-Ottieri rappresenta un oggetto mondano di desiderio, e che era apparsa già una volta (p. 146).
In questa ultima parte l’accento è calcato sulla descrizione del trattamento, prima con apomorfine poi con Antabuse, e dei suoi effetti. Attorno, la consueta commedia umana (dal “Principe” di Bicêtre a un anemico adolescente), la morsa del tedio «come la palla di un flipper» (p. 217).
Se il plot della sezione è arido, meccanico, va ricordato almeno il passaggio alto in cui Ottieri, per il tramite della voce narrante, s’interroga sulla dipendenza, compresa l’immagine che dà il titolo al poemetto (pp. 221-222):

Dipendenza, chi sei tu? Sei un morso insieme
del sangue e mentale, sei una micidiale
strada maestra, sei un viottolo,
una scorciatoia o una lenta serie
di tornanti incontro al passo della morte:
perché tu, uomo, non vai di città in città,
di campagna in campagna, ma di bar
in bar come un tempo i cavalli
e i messaggeri; e misuri il tempo
non dall’orologio ma dalla durata
alchemica di un nettare qualsiasi
che sostiene l’umore in cui hai buon umore
anche rispetto alla morte e all’amore
fino all’orrido rientro nel reale
da cui esci solo con nuovo
alcolico calore. È il male.
Sei, dipendenza, una schiava a forma di serpe
che mangia la coda, d’uomo che si trivella
senza trovare gasolio in se stesso
ma che agogna alle pompe, sei la corda corta
del cane legato al piolo, che ulula al cielo
e poi fruga la terra, sei il noto
giro vizioso. Sei un lavandino otturato,
che non ti lascia indipendente per l’Africa,
né per le isole selvagge, pei monti nevosi,
o New York
o per le eleganti vie dello shopping,
per il ventre di una donna,
per un bacio, poi altro bacio;
non ti lascia essere vero
esploratore, dongiovanni ma paziente
passeggero di un mondo senza bar. Forse
senza la dipendenza dimenticheresti la morte,
come un alberello s’affranca dal sostegno
perché non esiste decesso
per chi non lo pensa
o forse avresti un pensiero di morte
assai vivo.

Come spesso succede, al protrarsi del trattamento si affacciano resistenze psicologiche che si estrinsecano nella voglia di uscire. Ed è così che termina La corda corta, con la dimissione volontaria da Bicêtre che non è che cadenza d’inganno dell’ennesima, immediata corsa verso Le Betulle, dove si proclama egoticamente una guarigione e prontezza alla vita, non si sa quanto supportate da un vero ritorno a casa o invece da un re-internamento… (p. 225):

Uscisti chiuso nella piccola
auto francese dei tuoi adorati
samaritani italiani (…)
Corresti senza l’ombra di un rabarbaro
non da me, né Letizia, né tua moglie
ma per primo al gentilissimo Appiano.
Salve, betulle!
Al direttore sanitario
sempre affannato e dolce
tu dicesti: “Eccomi lucido, come
una foglia lavata dalla pioggia.
Eccomi come una verdissima foglia.
Ora son pronto alla vita, mai oblioso
del tedio e della morte. Ora io sono
il timoniere di me stesso nella
vitale procella. Ora son pronto
alla vita, alla rivoluzione
e alla morte. A casa torno”.
Così cominciasti a esercitare la sorte
già fin sotto le prime betulle.


La raccolta L’estinzione dello Stato, scritta nel 1981-82, costituisce, assieme a poche altre poesie adolescenziali (sulle quali non mi soffermo e lascio al lettore esperienza e giudizio), la componente inedita di questo “Libro giallo” Marsilio del 1986.
Si tratta questa volta di una raccolta di poesie, nella quale il dominio della nevrotica autoanalisi di “Dongiovanni monogamo” («pur preoccupati dalle interiora | dalle membra, del membro | sei un incessante dilemma» si legge a p. 293) con-cede, nonostante la possente poesia di apertura a Vittorio e a me stesso («Esiste una protesi della psiche? | Forse esiste solo una protesi delle fiche») di alternarsi con altre tematiche quali soprattutto la satira politica e il misurato compianto funebre per la giovane dedicataria Elisabetta, figlia di Luciano (Lucio) Mauri dunque nipote di Ottieri, morta a soli ventitré anni «in un fragor di orrore e di lamiere»; il dolore per E. si salda col ricordo dei propri genitori defunti, e spinge il poeta anche a cercare in versi l’affetto della moglie Silvana. C’è ampio spazio anche per lo gnomico (dai consigli all’Italia al (self?) coaching psicologico ed esistenziale, si potrebbe dire oggi: Barriera, Il predittivo, La riserva), la critica sociale (L’ingiustizia sociale) e lo spirituale, fino a una (quanto?) ritrovata religiosità.

Rispetto all’universo poetico di Ottieri, tutto giocato sul poematico gravitante attorno alla galassia egotica-autoanalitica di ossessioni e compulsioni, ansie e trattamenti, si tratta di una diversa e peculiare impostazione, anche se (per essere forse più controllata, almeno in alcuni registri come quello funebre) non mi sembra mai in grado di raggiungere le altezze, più o meno “a briglia sciolta”, per esempio, de La corda corta o L’infermiera di Pisa.
Il titolo della raccolta è preso dalla chiusa di una poesia, Bastonata (pp. 327-328): «Sovietici, fate più mutande | e meno calze, missili anche voi, | altrimenti noi riprendiamo | a sognare con Marx | l’estinzione dello Stato».
L’elemento di calembour è meno presente del solito ma appare improvvisamente nella clamorosa e allucinata parodia montaliana Spinellare, o nel racconto di un episodio di derealizzazione (epigono della seconda sezione de La corda corta) incentrato su Piero Ottone, che riporta aulicamente al filone del je est un autre rimbaudiano (ottimamente svolto, per esempio, per inversionem – (“Un altro è io“) – da Gianfranco Palmery, o con indimenticabile facezia nel famoso “Hey, Harry! Harry Martel!” in un capitolo del Bukowskiano Pulp).
Questa raccolta ha poi il pregio di contenere omaggi espliciti a Dante, svelando la predilezione verso il Grande padre, che predomina quantitativamente nel florilegio di richiami e citazioni (anche con storpiature) che Ottieri ha disseminato lungo tutta la sua opera poetica. «Per questo ti amiamo, Dante, | non avendo bisogno dell’infernale | dell’amorale, | del sentimentale, | tu hai costruito | la cattedrale | a colpi di terzine. | Sta in equilibrio su se stessa, | non è maledetta. Maledetta e fessa | è la poesia senz’orma | senza collina e lonza. | Il poeta deve prevedere, | conoscere il primo come l’ultimo | verso», si legge ne Il razionale.
Ancora più chiaro è il non sum dignus a chiusa della lirica Il romanzo: «Alighieri Dante, | quello che non posso è scrivere | lo scandito, turrito poema, | come il tuo e io mi getto | ai tuoi piedi. Il poema come il | tuo vorrei scrivere e ritmare».

Di séguito, a chiusura di questa mia traversata, una robusta scelta da L’estinzione:

L’INGIUSTIZIA SOCIALE

Tossico è il mondo
perché tossica è la vita,
la diritta via non può essere che a priori smarrita
pel veleno della serpe.
Ma tu, Italia, non essere serva e infida,
non ti drogare col foot-ball,
cerca la tua economica via,
che il terrore non ti consumi,
che la disperazione sociale non ti mangi,
poiché il terrore nasce
dalla fonda disperazione che sale
dal ventre eternamente troppo sazio
e dal ventre che non vale più nemmeno
la pena sia nutrito.
Questo è il nitrito del vero male
del cavallo imbizzarrito
che sei tu, Italia.

*

PER ELISABETTA

Lucio, io vorrei che tua figlia
non fosse morta. Non ci resta altrimenti
che raggiungerla anche se non sappiamo
bene dove; lentamente dimenticarla

è ripugnante. Ci scotta ormai
sotto i piedi la terra.
Si è aperto un vulcano che ignoriamo
quando si spegne.

Scende intanto una lava nera sul cranio
e il cuore, li avvolge, e li dimena
fra l’esserci per un immediato decesso

o l’attendere attraverso un diurno notturno.
Fra ricordare e dimenticare
si è aperto lo spacco.

*

SPINELLARE

Spinellare pallido e assorto
lungo un tiepido muro morto.
Respirare l’erba che invece che di prato
d’un fumo attosca che odora la stanza
chiusa. È raro che si veda fumar fuori,
nell’erba del giardino, perché la preparazione
dello spinello richiede il tavolino.
Occorre un cartoncino. Lo fa gente fessa
e non fessa, ma comunque occorre l’occorrente.
Il profano tossisce, ha nausea, vede doppio.
L’esperta – dice – si sente sollevare, alzare
le spalle, dilungare nella distensione
le gambe. È il breve volo di Leonardo.
S’eccita un altro esperto come se bevesse.
Dipendere dall’uso e dall’abuso, dalla serata,
dal carattere, dai cocci
di bottiglia del giorno o dalle fatiche
dolci degli amplessi. Dipendere
dai complessi, dal buio o dal sereno,
dipendere dall’uso o abuso dell’asta.
Variare dello spinello, come un inadeguabile
svariare dell’anima
e staccare la vita dalla vita.

*

CONFINE

Ore e ore di solitudine occorrono
al poeta o a colui che è simile
al poeta per costruire sulla sabbia,
sulla pietra o sul legno.
Deve costruire piccoli e grandi castelli
che durino da soli. Mantenere la pista
sulla sabbia, nella foresta caotica,
nella carta bianca. Siamo sempre al lavoro
sull’orlo del mare, del bosco, per
costruire un sentiero. Non c’è fine.
La vita del poeta non va in pensione,
non ha confine.

*

INDIVIDUARSI

Individuarsi è lo scopo di essere mortale. Poiché
esso – s’è detto – ha svariate tentazioni d’essere
un altro, confondersi con l’abiezione o la gloria.
Ricordati ancora che un mattino ti svegliasti
che non eri tu ma Piero Ottone. Ne eri
certo. Occorre una intera giornata
perché svanisca la sensazione. Che perdita di tempo.
Intanto Piero Ottone, ignaro,
dirigeva il Corsera, un giorno a Roma,
un giorno a Milano. La notte
viaggiava sul vagone letto. Questo ti piaceva.
Piero Ottone non aveva il minimo cenno
del tuo fenomeno. Gli andava detto.
Tu intanto stavi sempre sul bordo
del tuo letto o ti aggiravi intorno alla sedia.
La mattina l’aroma identificatorio
è fortissimo, ti inebria. Man mano la realtà si dirizza
e la sera non avevi che il ricordo, la nostalgia.
Ci vollero dodici ore perché tu dicesti:
Ma la mia vita è la mia. Bambino,
impieghi dodici ore per una scoperta ovvia.
Peccato che il gioco
sia “un poco” doloroso.


[Ottiero OTTIERI, Tutte le poesie. Con ottanta nuove poesie, Venezia: Marsilio, 1986, pp. 361, ISBN 88-317-4855-6 ]
un percorso su Ottieri a cura di Demetrio Marra