Leonardo De Santis, Il robot giardiniere

Quello che segue l’immagine è il contenuto, lievissimamente modificato e arricchito con un paio di esempi, di una nota di lettura indirizzata a Leonardo De Santis in occasione del suo ciclo poetico d’esordio. Il lavoro di Leonardo, assieme a quelli di Eleonora Cattafi e Diletta D’Angelo, è stato scelto da Pordenonelegge per essere pubblicato in ebook nell’ambito del progetto Esordi 2021. Vista la autorevolezza dell’apparato che accompagna le poesie, mi ero proposto di essere telegrafico ma, come sempre, la scrittura mi ha preso la mano e ho finito alle 4 di mattina, come la mia sociosfera sa. Quindi ne è uscito qualcosa di suscettibile d’essere sottoposto, col consenso del destinatario, al Vostro apprezzamento o dileggio.

La città volante di Laputa in una illustrazione di un’edizione de I viaggi di Gulliver (Jean-Ignace-Isidore Gérard, Public domain, attraverso Wikimedia Commons)

Il robot giardiniere è un ciclo di poesie che giudico molto positivamente, e non mi sentirei di aggiungere troppo alle accurate deduzioni di Azzurra D’Agostino e Marco Corsi, ricostruzioni che già forniscono un carico ermeneutico significativo. A partire dal protagonista del titolo, che si aggancia a un personaggio del lungometraggio Laputa di Hayao Miyazaki, a sua volta ispirato da I viaggi di Gulliver nel concepire la città spaziale, come vedete nella illustrazione di metà Ottocento che ho scelto come immagine per affiancare questa nota.

Due, a mio avviso, sono i cardini della messa in opera. C’è in primo luogo un intento di straniamento che va preservato, proprio perché in qualche misura vuole essere inestricabile e, se anche non lo fosse, un disvelamento totale nuocerebbe alla sua freschezza. In secondo luogo mi colpisce che la estrema complessità della trama soggettiva-oggettiva sia ottenuta mediante un lessico sempre semplice e “ribattuto”, più o meno ostinato nella ripetizione del lemma, in contrasto con l’assioma eustilistico che, più o meno consciamente, fa da volano a questa prassi. Anche se questo procedere non è certo raro (per es. mi viene in mente l’incedere di Silvia Tripodi, premio Pagliarani 2015; oppure certe parti di Omissis di Bellinvia, recensendo il quale ho usato più volte la stessa parola straniamento) e ha origini nobili (penso soprattutto, e perentoriamente, al Es ist Zeit, daß es Zeit wird di Paul Celan), rimane forse ancora prevalente che nella intenzione degli Autori la ricerca di complessità strutturale si rispecchi in una iperestensione vocabolaristica.

Non è questo il caso; e credo proprio che c’entri, prima ancora che il lavoro di librettista operistico dell’A., la sua simbiosi profonda con il procedimento musicale. Un punto su tutti, a mio giudizio tra i più alti del poema: il “cromatismo” (quasi da Vorspiel del Tristan) con cui, nella prima stanza di p. 88*, attraverso ripetizioni e cesure, si passa dal “genere” come sinonimo di qualità morale al “genere” come identità/orientamento, confondendo tutto in una benefica irrilevanza.

Una donna che se ne fa
di un uomo del genere, un uomo
che se ne fa di una donna / del genere che
se ne fa un uomo?
Del genere che se ne fa una donna?
Se ne fa, un uomo, del genere di un uomo.
Un uomo, del genere, se ne fa. Che se ne fa
una donna, del genere
di un uomo del genere.
Che genere di uomo o di donna
di un uomo o di una donna se ne fa?
Del genere che se ne fa,
un uomo di una donna e una donna di un uomo?

In De Santis la padronanza della parola si esprime — non solo in questo appena citato esercizio di bravura — attraverso varie forme e tecniche frastiche che mettono in discussione le identità tradizionali, trasponendo tutto su un significato che s’intuisce profondo, antropologico e sociale, interpersonale.

Proprio per questo, di fronte a questo strumentario, e provando a oltrepassare la filologia che porta a Miyazaki, ci si chiede chi sia il main character, il robot giardiniere, nella visione Autoriale. Facendomi forza sulla dicotomia soggettiva delle prime due poesie, potrei rispondere che è un altro-dal-soggetto-poetante. Un “simile” al massimo grado, leggiamo in testa (ma simile a cosa: all’uomo o piuttosto alla umanità che l’uomo ha perduto?). Tuttavia sono propenso a vederci piuttosto una declinazione dell’io, una condizione personale — forse un safe mode di indifferenza e distacco post-traumatico, o addirittura un cupio dissolvi (visto che il poema è pieno di squarci aperti all’autostima e, direi, robustissimi sensi di colpa). Tutto ciò considerando che, progressivamente, il “disinteresse” dell’androide scivola nella “distrazione” dell’io, confondendo i soggetti a partire da p. 87; dove anche la seconda strofa sembra darmi molti indizi corroboranti.

Come può dire di esserci che non lo sa

che non ha da dire.

So che c’è perché io non ci sono,

ma se c’era prima c’ero anch’io.

Molto forte è la tentazione di vederci anche una metafora della condizione del poeta (tale direzione ci addita Marco Corsi, in uscita di postfazione). Almeno per la mia concezione di poesia come vocazione totalizzante, il poeta è, ex se, avulso da ogni integrazione socio-economica. Idealmente, quindi, e a rovescio, un androide sganciato dalla necessità e dall’interesse (impulsi e bisogni o cupidigie che ci spingono fatalmente lontano dalla poesia e verso il part-time della versificazione) sarebbe il poeta perfetto.

La stessa azione del robot si esplica nella cura verso piante e animali; essa può essere vista come una inversione per mano meccanica, impedita alle capacità umane, dell’impatto antropico sull’ambiente, ma anche come una nuova consapevolezza soggettiva o collettiva (anche a Roma, nel dicembre del 2020, è stato presentato il progetto “Alpha Garden” di Ken Goldberg della Berkeley Univ., ossia il primo robot giardiniere a campo visivo triassiale). E proprio all’interno della prospettiva ecologista, il verso di chiusura mi sembra ricchissimo, lasciando aperte tutte le ipotesi: la sorte delle api è, infatti, notoriamente un trending topic; il loro “ritorno” (o adeguato ripopolamento) è qualcosa di utopistico o ideale — icona del riequilibrio ambientalista — ma è anche un potente richiamo aneddotico a Pindaro, per molti secoli il Poeta per antonomasia.

Devo per ragioni di brevità trattenermi da tutte le interpretazioni degli episodi forti, lato sensu narrativi, ossia dai ricordi, delle poesie che si alternano con le “liriche del distacco” del robot-oppure-poeta (bello, a paradigma del distacco, l’impiego in esergo della Daphne Rilkiana). Queste rêverie hanno comunque forza e sostanza poetica, autosufficienza.

Occorre piuttosto rimarcare, nell’ultima parte (giuro!) di questa mia lettura, una ulteriore caratteristica della scrittura di De Santis, ossia che essa contiene un mare metatestuale che sospetto addirittura oceanico. Con l’ovvia avvertenza che più di qualcosa sarà sfuggito anche a me, procedo per ordine crescente di importanza: la citazione della leonessa da Kill Bill (p. 92), poi tutto il sostrato videoludico: qui la croce nera e il display in grigi (p. 89) accomuna la mia giovinezza a quella dell’A., con la sola differenza generazionale che io giocavo coi primi GameBoy e lui verosimilmente col NES, come desumo dal richiamo alla saga di EarthBound (il device a p. 90). Parentesi: la apparizione improvvisa di Eichmann è un momento molto forte, raggelante (da qui sono andato mentalmente a Celan, come sopra) e ci vedo l’acme del senso di colpa del poeta rapporto alla percezione-azione di autoisolamento, di allontanamento.

L’ultimo metatesto è quello a mio avviso fondamentale: il richiamo a Gli strumenti umani di Vittorio Sereni, nella poesia finale. Troppe possibilità interpretative si spalancano, aumentate dall’uso del passato prossimo e dal “Pensiero zero” (o zero pensiero?) collocato in coda al poema! Una cosa è certa, cioè che oltre al sereniano senso di perdita, di tardività dell’azione che forse spira anche sotto a questi versi, io colgo in una poesia di Sereni (I versi, appunto, che da qui in avanti cito), la radice stilistica che in buona parte ti contraddistingue: rime identiche esterne (“anni / anni”) o interne (“peso / peso”) e soprattutto quello “ostinato colloquiale” da cui siamo partiti (“Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro”).


[Leonardo DE SANTIS, Il robot giardiniere, presentaz. A. D’Agostino, nota M. Corsi; in CESCON-D’AGOSTINO-DI DIO-GEZZI-MANCINELLI (cur.), Esordi 2021, Pordenone: Fondazione Pordenonelegge.it, 2021, pp. 78-104, ebook/PDF, EAN 9788894976397]

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