Marco Simonelli, Litania nervosa

Jacek MALCZEWSKI, Melancholia (part.), 1890-1894, Poznań: Museo Nazionale (Jacek Malczewski, Public domain, via Wikimedia Commons)

Nel corso di una generosa intervista resa a Vanni Santoni sul Corriere Fiorentino, Marco Simonelli ripercorre quasi letteralmente il famoso passo chez Swann su “les bons poètes que la tyrannie de la rime force à trouver leurs plus grandes beautés”. Più esplicitamente, il poeta svolge lo stesso concetto di Proust estendendolo alla metrica e agli altri elementi strutturali che provvidamente lo costringono a soluzioni stilistiche lungamente meditate. Un ancoraggio formale, quello di Simonelli, che si combina da sempre (lo abbiamo già appurato anni fa, ne Il pianto dell’aragosta e altrove) con una confessionalità spinta al massimo grado; creando un effetto di contrasto vincente, perché — lasciando per un momento da parte grandissimi del passato quali Penna o Kavafis — l’affrancamento dalle catene del don’t ask, don’t tell chiama spesso e istintivamente una modalità espressiva torrenziale, incontrollata: si veda al proposito proprio quell’Ottiero Ottieri provvidamente citato in coda di intervista, e che ha scritto poemi indimenticabili su ossessione, alcolismo e relative degenze (su tutti, a mio giudizio, L’infermiera di Pisa e i due analizzati qui).

E invece Simonelli riesce a mantenersi leale al “tiranno” anche in questo suo Litania nervosa [scheda SBN] , poema quadripartito appena uscito per i tipi di Valigie Rosse, nel quale si affrontano in endecasillabi argomenti oggi forse maggiormente sdoganati rispetto a ieri, ma egualmente spinosi, quali l’insorgenza di una depressione maggiore con conseguenze quasi irreversibili, il ricovero psichiatrico, il percorso di cura (comprese incomunicabilità varie) e un finale necessariamente aperto in quanto — ribadisce il poeta nell’intervista — la depressione si può forse “addomesticare” ma mai eradicare del tutto (giudizio simile ebbe Franca Valeri nei confronti dell’ansia, “malattia incurabile”).

Dunque il lettore si trova davanti a tutto lo spiazzamento fertile di una storia dalla massima valenza personale ed emotiva, eppure raccontata in forme rigorose, in endecasillabi in rima prevalentemente alternata: volta per volta, aprendo in ottava siciliana, procedendo in quartine alternate doppie o singole, poi in sonetto shakespeariano (ABAB CDCD EFEF GG), oppure continentale — lentiniano (fronte alternata) o anche stilnovista (fronte ABBA); c’è persino un sonetto ritornellato (p. 80). Solo nell’ultimo, splendido sonetto (prima dell’exitus in rima continua) la tirannia della rima concede una notturna dispensa verso lo scioglimento. Non si allenta mai invece la gabbia endecasillabica, eccetto per il ricorso a un’alternanza di sdruccioli (p. 38) e ai due settenari del citato ritornello.

L’impianto chiama lo stile; ed è evidente già dall’inizio come allitterazione (e, aggiungo rispetto alla intervista, anafora) siano elementi cardine del poema; ciò sia per la capacità di condensare il discorso poetico, sia per la asserita valenza mimetica nei confronti del pensiero ossessivo. Già dalle prime poesie si ha la sensazione quasi fisica di una lotta senza quartiere, di una frenetica e fallimentare ricerca di scampo in ogni dove, acuita dalla serrata ripetizione. Qui, più che nel richiamo testuale a p. 74, si incarna il richiamo ironico del titolo alla litania — e la enumerazione dei luoghi (esteriori o interiori) in cui invano si cerca riparo mi fa pensare anche a un gigantesco rovesciamento doloroso e parodistico della prima quartina della Elevazione Baudelairiana, terza lirica de I fiori del male: “Sopra gli stagni, sopra i monti e le vallate, / sopra le foreste, le nuvole, gli oceani, / al di là del sole, oltre gli spazi eterei, / al di là dei confini delle sfere stellate…” (trad. Luciana Frezza).

Del resto, nonostante il vocabolario sempre pianeggiante, Litania nervosa è un libro colto, che riflette la preparazione del suo Autore. Basterebbe a dimostrarlo l’evidenza che nella prima sezione le poesie sono tutte introdotte da un lacerto poetico, il che ci porta a passeggio per secoli di poesia italiana. Ciò non certo per sfoggio, né solamente come thema sul quale “germina” la trasfigurazione poetica (un esempio di questo tipo lo avevamo osservato con l’impiego della Clori del Tasso in Nel nosocomio di Rosaria Lo Russo); ma anche per una visione autoriale da ars longa vita brevis che lascio alle note finali (e ai vv. 3-4 della quartina di uscita). A lato di questa promenade di partenza, non mancano a mio avviso nutrite suggestioni intertestuali, per esempio cinematografiche (“Sarà domani, oppure un altro giorno”, p. 17; “oltre il giardino… [ma, a differenza di Chance] / per ritornare subito in galera”, p. 22) oppure a matrice Baudelaire (i ragni a p. 72), Poe (“La risata diabolica dei corvi”, p. 14; “sognando di sognare all’infinito”, p. 19), forse Dante (sempre p. 14: “Senza l’illusione / di ritrovare strade conosciute”), forse Mogol/Battisti (“discese estreme e risalite” p. 24). Addirittura in quel “Ricordati che tu non vali niente” a p. 30 si può scorgere il rovesciamento di un noto slogan pubblicitario.

Last but foremost, la pietanza del contenuto. Che non offre grossi cali di tensione, che sa restituire tragedia e grottesco, ossessioni endogene ed effettivo grigiore universale, scintille di volontà e consapevolezza della impossibilità di una guarigione totale. Tutto ciò con una dimensione ulteriore di amarezza nel trittico di sonetti della terza sezione, in cui sembra squadernarsi, attraverso un montaggio di frasi fatte, quel famoso passaggio de Il deserto dei Tartari in cui Buzzati scrive che “gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; che se uno soffre il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”.

A lato e a prescindere da ogni giudizio di lettura, stima profonda per una persona e un poeta che, con una ormai consolidata esperienza di scrittura, sta coraggiosamente elevando a sistema la sua trasparenza. E non è cosa da sottopesare, visti tempi luoghi e consessi che ci sono stati dati in sorte.
Di seguito, quattro assaggi da ciascuna sezione.

***

E la mesta armonia che lo governa
Ugo Foscolo

Con i denti ingialliti sul sorriso
e la forfora a scaglie fra i capelli.
Un po’ di barba sfatta lungo il viso.
Unghie smangiate fino ai polpastrelli.
Lasciarsi andare, sì, a brano a brano.
Sgretolarsi arrancando con affanno.
Ripetendo con ritmo quotidiano
che prima o poi le cose cambieranno.

*

Il giorno: un lento valico d’umore
trascorso nel miraggio di un approdo.
Sosterai lungo il bordo del vapore
fissando le stelline in fondo al brodo.

*

Davvero. Non apprezzi ciò che hai.
Sei solamente in cerca d’attenzione.
Non conta ciò che sei ma ciò che fai.
Sta diventando proprio un’ossessione.
Hai mai provato con l’omeopatia?
Dovresti incominciare a meditare.
È solo una questione di energia.
Un chakra complicato da sbloccare.
Lamentarsi non porta proprio a niente.
Prega Gesù che ti faccia guarire.
Piano, piano: non essere impaziente.
Ci sono modi e modi per soffrire.
Non è del tutto a posto con la testa.
Di ciò che c’era prima, cosa resta?

*

Ti chiedi chi sarai dopo la cura:
di te che ne sarà? Che resterà?
A quali porte dell’identità
chiuderai l’ossidata serratura?
Dove nasconderai la spazzatura?
Che effetto ti farà la realtà?
Avrai o non avrai difficoltà
ad abitare insieme alla paura?
Davanti all’inflessibile giuria
pretenderai un equo compromesso?
E se il motore andasse in avaria
raggiungeresti a piedi un altro ingresso?
Scambierai la tua spoglia biografia
con un’altra versione di te stesso?

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[Marco SIMONELLI, Litania nervosa, nota di P. Maccari, Livorno: Valigie Rosse, 2021, pp. 85, EAN 9788898518654, ebook n/d]