Carlo Gregorio Bellinvia, Omissis

(patano, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)

(da Dubbi grammaticali)
Pronome

Pronome è soffiare
una bolla nell’abbandono

di un luogo, se non sono altro

che una bassissima
carica di me, una durata

finita. Ma fa un clima
ottimo, credo

de’ longhi, che comanda giù
un settimo cielo dentro i negozi

natalizi tra i portici,
e come i portici

mi pianto su tacchi

magrissimi di palafitta,
sopra cui navigo da fermo

e a vista tra i poli della marea,
su e giù, fra i miei alti

e bassi, senza mai davvero

partire, ché pronome è rimanere
sempre a disposizione.

*

(da Sillogismi dell’amore perso)
Sillogismo 8

a) chi non fa nulla è disoccupato
b) i tuoi sguardi sono gettoni per chiamare
c) i gettoni non funzionano più
d) le cabine avvolgono la gente
e) le cabine non esistono più

Simboli si usavano tra di noi, ma oggi
ci raggiungono meglio i collegamenti nudi,
netti. Risultato: tutto funziona di più,
ma niente avvolge la gente. Ecco
perché una come te
rimane ferita e disoccupata
come i gettoni, più delle cabine.

*

(da Trenta mandate di chiave)
XXIV. rauco

Quando, senza più l’estate,
le bambole e i manichini si alzano

e se ne vanno, quest’acqua vuota
vada a capo, vi prego, come certi

muri quest’acqua non inizi a narrare.

Dei bilanci col cielo
rimane così poco, il livido

lungo della costiera

non sembra più far male. Chiede
presenza il mare, come sempre,

a un suo avversario, a me
che passo. Per motivi igienici, ciascuno finisca

a casa la sua persona,

ma senza la mia voce.
Mi scuso per il disservizio.

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Brevemente, almeno spero, testimonio qui la mia ammirazione per la poesia di Carlo Gregorio Bellinvia e per il suo nuovo libro, Omissis (Arcipelago Itaca) che si presenta allo stesso tempo come la sintesi di un percorso già intrapreso (tra editoria e apparizione in lit-blog) e come una emersione minimale rispetto a un iceberg in versi che attende e incombe (così che il titolo, estratto da una delle ultime liriche, prende anche un sentore metapoetico). Usa questa immagine glaciale il critico Davide Castiglione che sposa totalmente la causa dell’Autore, dotando il libro di una prefazione monumentale – ancora più estesa di quella, già “saggistica”, tributata a Roberto Minardi – e che va a cogliere davvero ogni aspetto di questa raccolta tripartita, spingendosi a studiare e ad anticipare quello che ancora è di là da venire. Io, che leggo l’apparato sempre dopo il primo contatto col testo, sono stato totalmente “stoppato” dalla prefazione, che via via prevedeva e svolgeva ogni mia deduzione di lettura, proprio come un cestista difende il canestro. Lascio dunque al suo lavoro l’esemplificazione nel dettaglio della tecnica versale, dei modelli poetici e dei grandi temi trattati, questi ultimi marcatamente dolorosi e col giusto equilibrio tra confessionalità aperta e trasfigurazione poetica.
Mi ritrovo nell’apparentamento con la poesia di Cristina Annino (citata, del resto, in esergo a una poesia), parentela che si sostanzia soprattutto in un certo andamento frastico zigzagante che un (“il”?) trademark della poeta aretina. Curioso poi che i due siano uniti anche dal fatto di avere osservato, nelle loro vite e carriere poetiche, una pausa lunga o lunghissima dai versi, per diverse ragioni.
Non mi resta che aggiungere poche note e suggestioni personali.
La prima sezione, dedicata al “disossamento” e alla trasfigurazione degli elementi grammaticali, si sublima in un bellissimo svolgimento sull’elemento-pronome che è una (ben più delicata) variatio, se volete, dell’anatema del pidocchio di Gaddiana memoria.
La parte mediana del libro per me è la più clamorosa negli esiti, perché crea uno straniamento tridimensionale, sotto tre punti di osservazione che sono il surreale (l’estensione dell’immaginifico nelle premesse e conclusioni sub a-b-c…), l’ironico (diretto, e con piacere lo incasso, verso chi come me continua a vedere nel processo induttivo o analogico il motore poetico; ma forse Bellinvia è “solo” più abile di me nel realizzare quella divaricazione del senso che io so unicamente concepire o abbozzare) e il lineare (ossia: quale, delle due stanze di cui è composta ciascuna poesia, è l’antecedente e quale la conseguente? quale il tema, quale lo svolgimento?).
Le trenta poesie della sezione di chiusura, infine, sono il più intenso nocciolo autobiografico: viene posto in opera un procedimento che parte dalla tecnica di permutazione delle parole scelte come titolo; da tali parole – talora mediate dall’occasione di un fatto di cronaca o di un passo, ma più spesso legate a un vissuto intimo – viene dedotta la sostanza. Come fonte di tale meccanismo, Castiglione cita giustamente OuLiPo; più prosaicamente si potrebbe anche rinviare (ma in una versione scrambled) al “bersaglio” de La settimana engimistica. A mero esercizio di pavoneggiamento dello scrivente, accenno che la matrice di permutazione dei temi è verosimilmente alla base dell’incompiuto Contrapunctus XIV da L’arte della fuga di Bach, dunque dei suoi più recenti tentativi di completamento; quello di Zoltán Göncz fu “benedetto” nientemeno che da Ligeti, e in questo video, sotto il pentagramma, vedete scorrere la permutazione dei 3 soggetti più uno (che in fase ricostruttiva si assume essere il tema principale, a chiusura concentrica del lavoro).
Tornando ai versi del Nostro, va detto che l’elemento del ludus è presentissimo in questa sezione (creando un bel contrasto con la polpa tragica degli episodi narrati): si attacca nientemeno con un’ode a CR7, per poi imbatterci diffusamente in giochi scacchistici e in casellari enigmistici.
Ultima notazione. Il gioco della permutazione origina, in esergo, dalla parola sacer. La sacertà, nell’antica Roma, era la punizione riservata a chi compiva delitti contro lo stato o la religione; consisteva nella condanna capitale e, sul piano esecutivo, nella scriminante erga omnes per chiunque decidesse di far giustizia sommaria del malcapitato (se vogliamo, l’opposto dello stigma riservato a Caino, che invece non poteva essere toccato; tematica da cui è partita la riflessione poetica di Carlo Ragliani). Ricordo lo straniamento, durante le lezioni di storia del diritto romano, e la difficoltà di comprendere il concetto, di associare la parola sacer a una condanna a morte, a un linciaggio permanente istituzionalizzato. Questo perché non ci veniva spiegato che sacer è una vox media, cioè ancipite, che può assumere sfumature opposte, di “sacro” come di “dannato”. Anni e anni di confessionalità religiosa hanno annacquato convenzionalmente la seconda accezione, che invece l’A. coglie in pieno per rappresentare se stesso, le proprie vicende, la propria dannazione e salvazione, e quella vox media – appunto – tra scoria e dono che prende connotati addirittura morfologici lungo il libro.
Mi aggrego a chi attende con ansia prove poetiche ulteriori di Bellinvia.

(Carlo Gregorio BELLINVIA, Omissis, pref. D. Castiglione, Osimo: Arcipelago Itaca, 2021, pp. 105, EAN 9791280139214, ebook n/d)