Torcicollo e sarcasmo: Diego Riccobene, Ballate nere

Immagine di Dagon da un rilievo nella città di Khorsabad (R. Russell, Public domain, attraverso Wikimedia Commons)

Ecco un libro, Ballate nere di Diego Riccobene (scheda SBN), che si pone con coscienza e volontà su coordinate poetiche diametrali rispetto a quelle che amo, almeno di recente, praticare. Un libro che, quasi come un Songe di Berlioz, invoca, chiama a raccolta Archetipi ottocenteschi, divinità infere o superne (compreso quel Dagon che mi è caro, sebbene in forma di tenero mostriciattolo verde, da quando giocavo ad Alone In The Dark), e così via. Un libro dichiaratamente rivolto al passato e con modelli facilmente riconoscibili, Baudelaire e non solo (vedasi il cameo di un “nevermore” sostantivato a p. 20).

Come altri Autori poeticamente cosi direzionati (citerei in primis, tra i contemporanei, Mattia Tarantino), questa raccolta mi porta al centro di domande e tensioni decennali. Conflitti tra l’essenza del “pubblicare” e un libro il cui contenuto, come avverte subito la prefazione di Carlo Ragliani, “non è rivolto alla maggioranza dei lettori”, dunque non al “pubblico”. E il conseguente ventaglio di deduzioni e controdeduzioni che sono e continuano a essere il lavoro autoanalitico di tre lustri e passa. Col risultato che la voglia di fare una critica lato sensu militante (cioè non solo stricto sensu di viventi, in contrapposizione a quella accademica; ma anche in qualche modo selettiva, antologizzante) cede sempre — vivaddio! — di fronte al mio fidente e assoluto relativismo e alla voglia di pormi al centro dell’altro-da-me.

Casomai l’aspetto che su due piedi mi ha colpito, esplorando un universo così lontano dal mio per scelte di apparentamento, tematiche e lessicali, è proprio che a suscitarmi tante domande sia stata proprio questa raccolta di Diego Riccobene, e non quelle di Autori con sguardi e poetiche a lui affini; Autori che a volte, sicuramente in qualche caso per mia colpa, ho liquidato piuttosto sbrigativamente.

Credo che una ragione di questo mio diuturno soffermarmi stia nell’enorme scavo lessicale che il Poeta ha svolto. Mentre muovevo i primissimi passi tra le pagine, uno dei miei contatti più colti – Sergio Pasquandrea: poeta, docente, praticamente un pantomate: non c’è arte liberale in cui non sia competente e dotato – mi scriveva che stava rileggendo La bufera di Montale e gli veniva il torcicollo a forza di voltarsi a destra e a sinistra tra testo e dizionario. Stessa cosa, per me, quando leggo Pirandello. E stessa cosa ancora, nell’ordine delle svariate decine, quando mi muovo tra i versi di Ballate Nere.

Lo valuto un fatto per nulla destruens ma essenzialmente positivo e fortemente educativo. Sarebbe un “lavoro da fare” per noi lettori, citando un titolo di Biagio Cepollaro. Ed è — intuitivamente, visti i tempi che portano quel sarebbe nel tipo dell’eventualità o più spesso dell’irrealtà — la croce e delizia del libro, perché condanna l’A. a essere una Cassandra in un sistema (in una forma di equilibrio tra arte e imprenditoria della stessa) in cui si vendono, dunque si attenzionano, ormai solo le Elene dell’engagement e della (citando ancora la prefazione di Ragliani, ma anche un altro bravo studioso, Demetrio Marra) “poesia motivazionale” e lessicalmente pervia.
Ciò almeno per i poeti che perdurano nel Cioraniano “inconveniente di essere nati”. Probabilmente, quando tra diecimila anni sarà giunta l’ora dell’A., il suo lavoro non sarà gettato dalla torre come la sventurata indovina, ma — è il mio augurio — issato al livello di una ricchezza lemmatica da recuperare. Ricordiamoci sempre, per le sorti dei poeti, la frase di Tosca, dopo aver ucciso Scarpia: “è morto: or gli perdono”. E lo compone devotamente in posa funebre, prima di dileguarsi.
Tutto questo mi consegna la curiosa immagine di un libro rivolto al passato e forse destinato al futuro. Ma che non verrà perdonato al presente. Cartesianamente, un libro a parabola concava verso l’alto, discendente/ascendente.

Esemplificando ciò, e contemporaneamente spostandomi su un piano più marcatamente esegetico, potrei semplicemente citare un dato empirico: ho sottolineato i passaggi che più mi hanno colpito e corrispondono quasi esattamente (giuro su Dagon che non ho sbirciato) a quelli della postfazione del bravo Mario Famularo.
Innanzitutto l’incipit del libro: “Io credo nell’iniqua malasorte”, endecasillabo (quasi un Symbolum Nicenum rovesciato) che mi richiama la prima chiusa rimaria michelangiolesca: “Cosa umana non è che sotto il sole / non vinca morte né cangi la fortuna”. Approfitto di questa declaratoria iniziale del poeta per confermare come l’endecasillabo e il settenario siano la modalità versale egemone, fatta eccezione per alcuni episodi in ottonari e novenari.
Poi p. 15, forse lo squarcio più limpido del libro: “ il nostro compiacersi è solo un gioco, / un requiem recitato per errore / con pianti di civetta, / un’arrochita messe d’indovini / in nome del fastigio già sfasciato / dalle ordalìe gote”.
Poco più in là: “Se infine patteggiassi con la luce, / sarebbe lo sfiorire meno atroce?”
Un passetto oltre: “altro non scorgo / che un agoraio vinto nell’incastro / della sgrignante potestà vigliacca”.
Per chiudere, a pp. 44-45: “alveoli in sincope assenza / approdano al fiordo solare, / allacci sospesi tra l’Uovo / e il Niente, sarcomi che spurgano / l’eterno brandello d’amore / sprangando l’accesso latente; / tentai di invocare l’altrove / balordo, ma Morte ci vede, /siam suoi negli stagni del Mentre”.
Questi, all’interno della raccolta, i versi di immediata e perentoria fascinazione, e non può essere un caso che anche l’esperto Famularo ci si soffermi. Ma è evidente alla lettura che, rispetto ai restanti passi più ardui, si tratta di splendidi atolli, di “piacer figlio di” quell’affanno vocabolaristico che evidentemente anche io e i critici, che in teoria siamo dotati di maggiore acribia e forza di resistenza, percepiamo in quanto figli di “Natura cortese”.

Tuttavia, e per sorte, proprio il mio richiamo leopardiano mi porta a un altro nocciolo di poesie che mi ha colpito e costituisce il fulcro della raccolta, nel senso che è secondo me ne è il valore aggiunto, nonché, magari, la stella polare cui l’A. può guardare per superare in futuro la dialettica tra asperità e discese.
Sto pensando almeno alle prime due poesie della sezione Et in Arcadia ego (p. 47 ss.). Detto dell’opportunità dell’esergo/richiamo a Landolfi come ulteriore alfiere della parola colta, ho trovato davvero rinfrescante il sarcasmo che permea queste poesie e prende di mira l’idealizzazione della Natura matrigna, fintamente benevola.
Ecco, questo sarcasmo o ironia può essere un validissimo alleato di Riccobene per mantenere un registro alto e stemperare le difficoltà. Come infatti non deliziarsi del maldestro contatto con l’erba, del disgusto alla “emottisi” del tramonto, e soprattutto della comparsa ex abrupto del morto a galla nel bel mezzo di una, per restare al Berlioz, d’apertura, Scène aux champs?

Lame di luce tra cadenti felci
intarsiano il meriggio.
I sistri oggi zittiscono
le fiacche increspature della brezza,
assidua confidente
di un bimbo che canticchia
l’emottisi del giorno appena stinto.

Poi un corpuscolo esanime affiora,
prono orciolo invilito
nel dimidiare all’acqua
la sua pena di stanco spasimante
tra la dura sandracca.
Un solo punto nero
nel lungo imperio sfibrante d’agosto.

Pur restando ecologista, rinvengo insomma solidissime ragioni poetiche in questa operazione iconoclasta verso il diffuso sentimento bucolico (una delle facce del motivazionale cui accenna Ragliani). E auspico, nelle prossime prove, che l’A. possa potenziare questo registro sarcastico, che trovo azzeccato e pienamente nelle sue corde.
Cito ancora, sotto lo stesso aspetto, la prima stanza della terza poesia: il ritorno in città e lo struscio ove “fanciulli eunuchi lumano puttane”. E aggiungo, per finire, la bellissima Trenodia settenaria di p. 59:

La piccola ha mangiato
la testa di un’allodola.
Il gaio volto splende,
cornice pura d’occhi
in guscio liscio e saldo,
prosimetro del mondo;
i suoi capelli fiabe
deliziano i pidocchi,
di plastica un gioiello
adorna l’albo collo
chissà? dono nuziale
d’un giornalaio zoppo.

D’averla vista giura
l’autista di corriera
sul bivio masticare,
la fera bocca piena,
ranuncolo sbocciato
nel sangue a primavera
che già lusinga il mirto
ma nulla indora il dito:
il detto giornalaio
evacua inorridito.
La piccola ha mangiato
la testa di un’allodola.

Il corpicino freme,
la mano si fa chiostra
e trema ancora l’ala
nel nervo della vita.
Di poi che madre e padre
distratti da un banchetto,
dalla mensile questua,
cenciosa sorte in centro,
la strillano e la battono:
“T’è caro uscir di senno?”

risponde lei con grazia,
succhiando brune piume:
“Ho il naso curvo e storto,
le invidio il dritto becco”.
Un convenuto afferma
d’avervi scorto un fremito,
un tirso a nodo d’edera
celato nell’anelito.
La piccola ora canta
con voce d’alma allodola.

Un vivissimo mélange tra giovin signorina (per inversione, in ambiente “cencioso”) e Ozzy Osbourne che — ho motivo di crederlo — sarebbe piaciuto molto all’indimenticato Gabriele Galloni.

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[Diego RICCOBENE, Ballate nere, prefaz. C. Ragliani, postfaz. M. Famularo, Ancona: Italic, 2021, pp. 99, EAN 9788869743153, ebook n/d]