Tre pezzi per la fine del 2023

Saluto con freddezza un anno letterariamente in piena concordanza col precedente nel comprovarmi – mediante una pletora di indizi “gravi, precisi e concordanti” che non spoilero – quanto valga il mio lavoro di scriba. Ho reagito allo scorno nell’unico modo possibile: svincolandomi sempre più da pozzi manifestamente avvelenati. Poche amiche e pochi amici, che non ringrazierò mai abbastanza, hanno lenito il vulnus con la loro stima e scritture. Passiamo perciò oltre. Vi lascio i miei auguri per l’anno novello e queste prose di alcuni giorni fa, inframmezzate da qualche immagine “a tema” generata da MS designer, su miei prompt che hanno tentato di descrivere alla AI alcuni passaggi della scrittura (una sorta di ecfrasi inversa: dalla parola all’immagine, attraverso il prompt). Insomma, se le parole non vi piaceranno, potete sempre rifarvi gli occhi con le figure (scusate il peso dei jpeg). Prosit Neujahr! R.


«Sul tetto che separa i due piani…»

ANCHE IL PAESE si sta gentrificando. Il controviale a mare, un tempo indisciplinato ma arioso, ora è irreggimentato in piste color giada e mattone. Al contrafforte dei locali, più o meno di tendenza, che orbano della vista della spiaggia, si sta aggiungendo, sul lato opposto, quello dei nuovi alberghi di lusso in costruzione: una teoria serrata di edifici, processionarie divoratrici di luce. Contemplo il cambiamento, è inverno e accompagno mio padre alla passeggiata quotidiana; io malinconico, lui invece entusiasta nel vedere tutte queste novità, questi lavori, queste ditte, quest’Italia del fare (cosa, decidetelo voi). Un uomo di mezza età cova mestizia mentre un grande anziano annusa ogni minuzia, muovendosi a zig zag, agitato come un segugio sciolto. Eccettuata la battigia invernale, qualche panchina in piazza e due stradine spopolate dietro la grande libreria, tutto è vetrina, invito al consumo. Mi conforta soltanto quella villetta poco di qua dal pontile: sul tetto che separa i due piani han lasciato espandersi un piccolo tappeto fucsia di mesembriantemi. Lì, nella terrazza che si allunga sopra l’infiorata, bassa ma finalmente a occidente, sarebbe bello passare i pomeriggi miti o caldi, ormai arresi all’estinzione antropica, scrivendo, sorseggiando tè freddo, elaborando scuse inverosimili per non scendere alle vuote cerimonie sociali, aspettando lo sfratto della marea con la rassegnazione con cui un dittatore deposto, l’homo œconomicus, attende la sentenza di condanna…

Resterà ovviamente un sogno a occhi aperti. Riprendiamo l’auto e oltrepassiamo l’arteria che separa la ricchezza del centro dal nostro quartiere microborghese. Traffico, cantieri, sosta selvaggia e sacchetti a capriccio ci danno il bentornato. Mio padre, negazionista del declino familiare, ribatte con insulti ogni sarcasmo – offese macchinali, come nel copione di una commedia popolare – poi va in fuga per le scale e varca l’uscio. 

«È come se il suo gusto di pompelmo rosa si mutasse in tepore…»

L’ANSIOLITICO non dura ormai oltre le sei ore. Lo assumo al mattino, il momento più difficile, ed è come se il suo gusto di pompelmo rosa si mutasse in tepore, lo sento farsi strada nel cervello e da lì cullare i tessuti. Indugio a iniziare la giornata proprio per godermi la sensazione. Dopo pranzo, la vampa di sconforto che mi assale mi ricorda che sono nuovamente scoperto, ma non voglio esagerare, così affronto senza scudi l’ansia e la depressione pomeridiane. La cosa migliore che mi può capitare è di non pensare. Dalla finestra vedo alcuni pini. Vorrei scrivere; finisco inevitabilmente per osservarli a lungo. La loro vista dal letto, poi, è ancora più affascinante, perché taglia fuori case e vestigia dell’umano: quando il buio della mente mi obbliga a sdraiarmi, posso girarmi sul fianco e perdermi in loro. Soprattutto nel rosseggiare delle chiome, al tramonto e al crepuscolo: c’è più poesia lì che in ogni mio verso, già scritto o da scrivere. Non sono rimasti molti esemplari. Una tempesta artica, inascoltata vessillifera dell’apocalissi climatica, ne ha abbattuta una buona parte quasi un decennio fa. Dei restanti, pochi si giovano della protezione di alcune case, altri oscillano minacciosamente quando tira il vento. I pini, si sa, sono giganti dalle radici inadeguate. Pensatori disadattati. I giardinieri li curano, beninteso, li sfoltiscono continuamente, tolgono i rami bassi o spezzati lasciando solo la chioma in alto, onde offrire meno superficie d’impatto al vento, meno momento all’ondeggiare. Alcune gazze ci nidificano; qualche ingenuo picchio verde assalterà i tronchi nelle albe estive, inscenando un breve pezzo per percussioni, per poi darsela ad ali al risveglio in massa degli umani. Finalmente il mio sguardo si confonde nel verde, i pensieri si annullano in una sospensione del tempo. Poco fa, però, ho immaginato che i pini potessero parlare: subito il lenimento si è mutato in angoscia. Se i pini avessero voce singhiozzerebbero, griderebbero, inveirebbero contro di noi, bestemmierebbero pure: «Come avete potuto trascurare, addirittura irridere i segni della fine? Come potete far finta di niente, quando io rischio di crollare al suolo, o peggio ancora di avvizzire lentamente non appena la falda diverrà salina? Giusto che seguiate la nostra sorte!».

Uno scrittore aveva intuito e messo in un racconto la sofferenza vegetale e la follia cui potrebbe ridursi un uomo che riuscisse a percepirla. Ma non ricordavo titolo né autore; ricordavo solo che la menzione veniva da un amico bibliofilo con cui poi ho litigato, con ciò perdendo dignità di saluto e corrispondenza. Così mi è toccato immergermi nelle sue vecchie scritture online per risalire alla recensione e agli estremi del racconto; non potendo fare a meno di notare, durante la ricerca, che tutti gli scrittori e compositori che nel tempo aveva scoperto grazie a me ora li ha incontrati «per motivi che non ricordo». Sono stato minuziosamente espunto dalla narrazione del suo vissuto, proprio come si pota il ramo a mezz’altezza di un pino pericolante. Possa la mia caduta servirgli a non cadere.

«Se I pini avessero voce…»

IL PRIMO GIORNO DOPO LA POESIA sorse silenzioso e nebbioso. Sospeso. Nessun compositore famoso, incredibilmente, era nato o morto in quel giorno di quel mese: un’inquietante pagina bianca splendeva nell’almanacco musicale. 

Al mattino, l’orfano della propria poesia pagò l’ennesima gabella, ma ebbe anche modo di sorprendersi per l’ottenimento di un rimborso di cui si era totalmente dimenticato.

Meditò su hybris e ate, tracotanza e accecamento: lo schema non gli appariva confinato alla tragedia greca; serpeggiava in ogni lenta rovina – materiale o morale, pubblica o privata. Pensava a quella frase del poeta: «C’è come una forza d’inerzia nel male, che continua e ti trascina, e più sei sconfitto e più sei sconfitto». Aveva provato molte volte a esprimerle, la sua sconfitta attuale e quella – enorme, totale – a venire, ma nessuno lo ascoltava o prendeva sul serio. Cambiavano discorso, talora si assopivano.

Durante il pranzo, i vecchi di casa si alzavano per lanciare le briciole a un coraggioso batticoda e ad altri uccelli, col loro buffo, cerimonioso andrivieni.

Nel pomeriggio ricevette la chiamata della polleria in franchising che gli illustrò quanto fosse opportuno, alla luce degli eventi, vendere una scorta di pollo da lessare e comprarne altrettanto da bollire. Immaginò che sei mesi dopo sarebbe stato di nuovo fondamentale tornare al lesso, e così via. Si sferzò chiedendosi se nel registro anagrafico del pollame figurasse anche il suo nome. Si rispose con una smorfia alla Indiana Jones, di divertito disappunto. «Mandatemi pure la proposta»: consentì subito a tutto, più che altro per stanchezza. Certe cose non cambiano né cambieranno.

A sera ebbe la sua fase di titanismo, come ormai chiamava ciò che gli altri appellano normalità. Gli sembrò infatti di avvertire una brezza di appetito sessuale. Cercò di farsi mandare una foto sexy da una coetanea con cui flirtava. Lei gli inviò tre «scatti artistici» in cui pareva scaraventata da qualche malintenzionato sul tavolo da pranzo, sul pavimento del bagno. 

Studiò attentamente un numero telefonico, ma convenne con sé che, dopo decenni, era stufo di millantare, mentire, vender fumo: così, anziché comporlo, lo scompose e lo giocò al lotto.

Mentre il sonno lo ghermiva, biascicando un mantra in cui nemmeno credeva e augurando la buonanotte a un coniglio di pezza, intuì che il primo giorno dopo la poesia era stato esattamente come i precedenti: semplicemente, era il primo giorno in cui si era accordato con l’indifferenza e la malizia, più o meno cosciente e volontaria, dell’universo.

“Un mondo senza poesia, acquaforte in stile simbolista”