Vincenzo Lauria, Teatr/azioni

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Chiunque abbia presente, anche per sommi capi, la scena poetica e performativa fiorentina, conosce l’importanza del nome di Liliana Ugolini e del suo lavoro quarantennale. Un lavoro che ha saputo anche coinvolgere e ispirare una serie di interpreti, critici e penne/voci più giovani. Navigando le mie pagine scoprirete come anche io vi abbia attinto coordinate di riflessione e crescita, in particolare negli anni tra 2005 e 2009 ma anche oltre, complice l’interesse per alcuni volumi fondamentali di Liliana: Marionetteemiti (uscito in realtà nel 1999, poi riproposto in seconda stesura in) Tuttoteatro (2008), Delle marionette, dei burattini e del burattinaio (2007). Fino a lavorare insieme con l’A. in una e-plaquette a quattro mani, Gli occhi di Prometeo.
Proprio il titolo della seconda di queste opere campeggiava sullo schermo giovedì scorso, in occasione della presentazione fiorentina di un libro appena uscito, Teatr/azioni di Vincenzo Lauria (puntoacapo, 2019). La raccolta, nella sua crisalide di manoscritto inedito, aveva già avuto un riscontro importante ai premi “Elio Pagliarani” (semifinalista edizione 2016) e “Lorenzo Montano” (finalista edizione 2017).
Il puro e semplice fatto editoriale porta già con sé una serie di considerazioni, a partire da una non comune e lodevole (quasi ancestrale!) resilienza dell’Autore alla contemporanea urgenza di pubblicare: Lauria è alla prima pubblicazione cartacea ma è tutto meno che un esordiente. Vanta ben diciotto anni di esperienza di scrittura e performance, e dal 2010 collabora stabilmente con Ugolini alle varie edizioni del progetto Oltre Infinito.
Sgombriamo subito il campo dal mio ego, che fa capolino supra: ai miei occhi Vincenzo è, e con questa raccolta indubitabilmente si consacra come tale, l’epigono ugoliniano per eccellenza; il primus inter pares che, tra i non pochi che hanno incrociato la poetica dell’Autrice fiorentina, ha saputo assorbirne, accompagnarne e saprà massimamente propugnarne in futuro il “canone”. Mescolandovi, naturalmente e provvidamente, la propria, individuale concezione del mondo e cifra stilistica.

A tale proposito conviene partire proprio dalla poetica performativa ugoliniana, sintetizzandone al massimo (forse troppo) le idee-forza. A giudizio di chi scrive, e che vi si è soffermato soprattutto in un saggio cui ha l’impertinenza di rimandarvi nella bibliografia in calce*, due sono le direttrici importanti in cui l’opera di Ugolini si sofferma, e che ben sono sintetizzati proprio dal titolo del 1999 Marionetteemiti!
In primo luogo, la forte valenza ontologica del teatro (umano o delle marionette), tesa a porre nel nulla la presunta differenza tra scena e realtà; ivi compresa – nella “rilettura fantastica” del teatrino che è il citato Delle marionette… – la caustica considerazione metafisica di un “burattinaio-rifrazione” dipinto a piacere dalle stesse marionette; tutto ciò partendo da una frase del recentemente scomparso Guido Ceronetti che è una specie di Grundnorm da cui prende le mosse tutta la scrittura di Ugolini: «Siamo marionette, ma dobbiamo disperatamente fingere di non esserlo, o come uomini siamo perduti. Inoltre, essendo occulto il filo, si può sempre scommettere che non ci sia e fondare su questo dubbio la libertà individuale, nostra grazia ed erinni» (vedi anche un’efficace chiusa ugoliniana: «La marionetta è il corsivo di me»).
Altra e non meno importante innervatura dell’arte di Ugolini, di conserva con alcuni Autori come il Pavese dei Dialoghi con Leucò, è l’utilizzo del Mito e dell’Archetipo, precipitati sapienziali preesistenti entro la cui figura si annida una rappresentazione da mettere in scena ma spesso anche da riplasmare con il proprio vissuto – qui fondamentali sono opere come Imperdonate, Palcoscenico, Cuscus (tutte sussunte nel volume Tuttoteatro).

Come si pone la sensibilità individuale di Lauria in rapporto a questa tavolozza? Pur dimostrando, nei molteplici riferimenti culturali di cui Teatr/azioni è disseminato, di conoscerla per esteso, lo strumentario mitologico/archetipico prende nella scrittura di Vincenzo connotazioni puntuali e più marginali.
La elaborazione personale di Lauria della lezione ugoliniana si sublima invece nel potenziare l’elemento del teatro, la cui significanza ontologica si estende oltre la mera rappresentazione e la considerazione delle dramatis personae. Il Teatro – per Lauria luogo di verità e indagine/paradigma del sé («farò di me teatro», si legge in apertura), ma anche non-luogo nella sempre più annoiata, secca e solipsistica fruizione dello spettatore medio – ci viene mostrato attraverso una carrellata di elementi rituali – tecnici, psicologici, sociologici, surreali, persino apotropaici – che quindi non solo formano ma preparano, accompagnano o circondano la performance.
Le trenta poesie, proprio per il loro «dissacrante» (cfr. la Nota critica di  Giorgio Bonacini) focus sulla ritualità, si chiamano Cliché (I)-XXX. Esse sono pervase da un andamento serrato dato dal metro prevalentemente giambico (settenario come dimetro giambico catalettico). La struttura ricorda molto da vicino la prima stesura, quella marcatamente poetica, di Marionetteemiti, corrugandosi ulteriormente mediante l’utilizzo di troncamenti un po’ arcaizzanti.
L’ascendenza ugoliniana si coglie in “fingerprint” stilistici quali il frequente ricorso alle preposizioni in/nel a inizio versi; oppure a richiami cromatici in maiuscolo che credo possano essere almeno in parte un tributo a Pellegrinaggio con eco o Cuscus.
Ma tale ascendenza si coglie soprattutto nel pervasivo utilizzo della paronomasia e del gioco di parole: a volte lineare («L’Amleto perde l’amuleto», p. 36); altre volte ottenuto mettendo tra parentesi le lettere da scartare («ad incor(o)nar la scena», p. 37); più spesso attuato – con una tregua nella parte centrale del libro – tramite la resezione del vocabolo con uno slash (proprio come nel titolo della raccolta), a suggerire il bisenso di uno o entrambi i monconi. Questa scelta orto/grafica in particolare ha per la verità, a mio avviso, un effetto di eccessiva cesura (a livello mentale, prima ancora che performativo) nello scorrimento del verso: avrei preferito una ripetizione-variazione “piana” del lemma.

Le soluzioni formali ponderate e la stretta griglia che ne risulta non ostacolano la distillazione della riflessione profonda sul gioco di specchi tra vita e teatro, sempre [corsivo mio] «nell’al di qua/ del vero» (p. 13),  sia pure, con splendido quasi-ossimoro, «improbabile vero» (p. 12); sempre cioè con una forte valenza metaforica e didattica in rapporto alla nostra condizione umana e al suo (per restare nel teatro) beckettiano dispiegarsi in indissolubile grottesco-tragico. Anche se l’ultima figura che compare nel libro, fotografata in un gesto che non “spoilero”, getta una luce di sardonico pessimismo sulle capacità del libro, di ogni libro e del suo scrittore, a operare un completo disvelamento della rerum natura.

Termino proponendo due estratti, a prova di come il registro di Lauria sia ugualmente a proprio agio tra sostanza gnomica e virtuosismo verbale:

Cliché IV – Il palco

Scale
dai gradini di neve
l’algido apparire
di me a somiglianza.
In recitar respiri e pause
solitudini escludi
e ammanti l’aria del circostante
di un’aura
nell’imminenza d’altra presenza.
Contar fra il pubblico
di un rapimento in maschera
e quel che è
non rassomiglia al nulla
al privato accaduto
al viso degli astanti sfigurato.
Innanzi al palco
far la conoscenza
salire
e scontar di verità la penitenza.

*

Cliché XXVIII – La locandina

La locandina
ci accoglie – di candela al lume –
fumi di dee
in quadri di T/amara.
È stato
lo spettacolo
e m’incam(m)ino
bruciato, mimo,
l’arsura del sacro fuoco
annega in sciabordii d’Amarone:
i flutti di “gelide manine”,
dietro le cortine,
in chiaroscuri, retro calice.
Nel ritrovarsi postumo
Tetra è la notte
il “Trino” (mio solo commensale)
è
compagnia te(a)trale.

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Vincenzo LAURIA, Teatr/azioni, note di Giorgio Bonacini,  disegni di Uliviero Ulivieri e Giovanna Ugolini, Pasturana: puntoacapo Editrice, 2019, pp. 44