Silvia Patrizio, Smentire il bianco

Frederick Sandys, Medea (1866-1868), Birmingham: The Birmingham Museum And Art Gallery (Frederick Sandys, Public domain, via Wikimedia Commons)

Nella collana Estuari, diretta da Alessio Alessandrini per i tipi di Arcipelago Itaca, è uscita da pochissimo Smentire il bianco (scheda SBN), l’opera prima (ma di gestazione, si apprende dall’apparato, di almeno quindici anni) di Silvia Patrizio. L’introduzione e la postfazione sono rispettivamente di Andrea De Alberti e Davide Ferrari.
Tutta la raccolta mi pare imperniata sul dopo, sui suoi modi e tempi. Vengono presentati dolori, infermità, ammanchi, perdite, incomunicabilità; ma sempre con un incedere per particolari che – pur sapendo all’occorrenza concentrare la dis-grazia in un referto, in un titolo, addirittura in un verso monoverbale («infanticidio», p. 43) – tende a spostare la messa a fuoco dal crudo fatto, dalla perdita, all’aftermath, alle conseguenze più o meno o non riparabili, agli addestramenti, ai possibili aggiustamenti; alle accettazioni, ma anche alle controdeduzioni (il confronto a specchio tra Giasone e Medea nella parte poematica a lei dedicata, pp. 64-65) o perplessità (la bella poesia a p. 45, su cui tornerò in fondo a questa nota). In questo senso la poetica di Silvia Patrizio mi sembra molto imparentata con quella di Come non piangenti di Cristina Alziati, di cui – non a caso – viene citato un passaggio, e in cui enormi ferite personali e collettive vengono portate nei versi con una delicatezza che eleva il verso senza attenuare l’impatto.

Il «dopo», del resto, compare e si lega al colore nel titolo della prima sezione: “Una stanza bianca, dopo il treno”.
Tra quelle asettiche pareti, si ha sùbito un sentore che qualcosa si è incrinato, e quella incrinatura ci accompagnerà, in parte rivelandosi. L’esergo di Francesca Mannocchi, che apre la sezione, rinforza la sensazione collegando, sinestesicamente, “bianco” a “danno”. Dunque, implicitamente, la necessità di rapportarsi a quest’ultimo.
Da parte sua, il dopo si lega con procedimento affine al bianco in una delle più celebri poesie di Emily Dickinson (J341/F372): qui si assimila l’elaborazione del dolore al ricordo della neve («As Freezing persons, recollect the Snow»; anche qui, tra l’altro, il prefisso re– evidenziato da De Alberti nella sua Introduzione) – e del suo effetto: «First – Chill – then Stupor – then the letting go».
E ancora, il titolo Smentire il bianco può essere interpretato, come emerge nitidamente dalla scelta di un esergo di Paola Turroni, come una chiamata all’azione, ai riti del quotidiano; o anche, con facile ma perentoria allegoria, come una chiamata a riempire il foglio, alla scrittura. Quotidianità e scrittura, del resto, si amalgamano perfettamente nella chiusura di p. 24, «quando le pagine si imbrattano | col pane del giorno prima…».
L’equilibrio dinamico del libro, il cui fulcro è rimesso alla sensibilità del lettore, sta tutto tra quel «si sottomette al dopo», che chiude il ciclo di Medea, e la ubiqua portata programmatica dei versi che bene evidenzia Ferrari in postfazione.

C’è un equilibrio dinamico anche nella struttura bipartita del libro: a una prima metà più libera fa seguito uno scenario in cui le poesie sono sempre “dedicate”, spesso aggregate in poemetti, con maggiore o minore valenza scenica. Infatti ci viene presentata una rassegna di eroine Mitologiche stricto sensu (Medea, Cassandra, Penelope, Maria Maddalena) o lato sensu (cioè come archetipo sapienziale/drammatico tratto dalla storia o dalla letteratura: Ipazia, Ofelia).
È subito evidente quanto osservato da De Alberti nella sua Introduzione: «innesto e riscrittura… per penetrazione», come tecnica non riservata solamente alle poete e poeti citati nel libro ma anche, appunto, a quegli «universali fantastici» che, in una famosa lettera del 1942 a Fernanda Pivano, Cesare Pavese vede come essenziali «per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo». Parte da qui l’intuizione alla base dei Dialoghi con Leucò, ossia che i Miti non sono fruibili solo passivamente, per il loro ammaestramento, ma anche attivamente per la loro malleabilità, per la loro suscettibilità a essere plasmati sulla nostra peculiare esistenza e/o urgenza espressiva. Mi sembra che Ferrari sostenga il punto, quando scrive di «suggestioni manipolate in modo intelligente per darci la misura di uno spazio incolmabile tra l’essere e il voler essere».
La riscrittura del mito/archetipo è rinvenibile in innumerevoli Autori, ed è stata fondamentale – si parva licet – per i primi passi versali del misero estensore di questa nota. Proprio per questa mia esperienza di vita e poesia, la teoria delle sei protagoniste evocate da Silvia Patrizio non può – pur nelle profondissime differenze programmatiche e stilistiche e tra le Autrici – non riportarmi con forza alla mente le altrettante figure femminili di Liliana Ugolini, ovvero le sei Imperdonate del 2002. Eva, la donna di Don Giovanni, Medea, Karenina, Sheherazade, Antigone: personaggi poematici trasposti in mise en scène da Sabina Cesaroni, con la collaborazione di Laura Villani e della stessa Ugolini (l’opera è poi confluita in Tuttoteatro, scheda SBN). Eroine riscritte, ibridate da Ugolini col suo osservato/vissuto (al punto di fonderle in un’unica donna archetipo, mai nominandole in scena ma lasciandole riconoscibili nella loro narrazione, proprio per renderle massimamente adese alla propria storia).
In Smentire il bianco, questa plasmabilità sembra a prima vista rispecchiarsi anche sul piano macrotestuale, nelle linee di collegamento tra le due sezioni. Le lascio asseverare al lettore citando solo due indizi, evidenti: la sezione poematica/scenica, “Col digiuno negli occhi”, prende il nome da un verso dalla poesia che chiude la sezione precedente (a p. 46); il già citato «infanticidio» della poesia nella prima sezione ha un collegamento quantomeno formale nel «poemetto in voci» dedicato a Medea, dal momento che ne costituisce la polpa archetipica, anche se il personaggio sembra essere investigato soprattutto nel suo rapporto con l’Argonauta.

Sul piano stilistico, questa raccolta di lunghissima distillazione dà conto di equilibrio e personalità. Al netto di qualche concessione al canone metafisico en vogue (su tutte, il doppio sintagma nominativo/genitivo), le figure di stile più ricorrenti sono riconoscibili:
La rima identica. Primo esempio: «Eri il fuoco | gettato sull’amore | dalla parola amore» (p. 59). Esempio secondo : «il suo incedere lento, | un viso su cui lento | il mondo impoverisce» (p. 74).
Elencazioni (nel dittico intitolato, ma non ecfrastico, alla famosa Persistenza della memoria di Dalì, pp. 22-23), o enumerazioni (già all’inizio, e soprattutto nella prima parte del libro, ma praticamente ovunque, in una simmetria ideale: enumerazioni di cose, poi di personaggi arche-tipici per ruolo, «della storia», a p. 41; infine la galleria di archetipi veri e propri nella parte “scenica” del libro). Segnalo una combinazione tra enumerazione e allitterazione, a mo’ di sillabario, a p. 28.
Anticlimax (o piuttosto climax della degenerazione?) molto ben portato; come nella poesia “psicocivile” di p. 44, in cui abbiamo tutti gli snodi cognitivi, quotidiani e diffusi, con cui la tragedia sfuma nel menefreghismo (con quel «Ragionano» in testa alla poesia, che le dà un senso di amaro sarcasmo). Da notare anche la chiusa a p. 24 come esempio di anticlimax retorico immediatamente successivo a una enumerazione (anche qui le tecniche si combinano).

In conclusione, indico e allego qui sotto, affiancate, due poesie che mi hanno fatto viaggiare speculativamente. Anche per dimostrare che il libro è in grado di sopravvivere alla mia solitamente pedante analisi, e a generare immutato piacere e slanci interpretativi.
La prima poesia: ho già accennato alle “perplessità” che l’Autrice esprime a p. 45: esse sono rivolte verso una lectio ecclesiæ percepita come semplicistica di fronte alla complessità e alla infungibile peculiarità di ogni dolore. In più la poesia si dipana con una terminologia insieme liturgica e marittima; quest’ultima è solo una concrezione di una componente acquatica che si sente lungo tutta la raccolta (non casuale l’Eliot in chiusura del libro).
La seconda poesia che mi ha colpito è a p. 74: una scena, la seconda, dedicata a Ofelia. È una “profondissima quiete” che rimbalza metaforicamente dalle rive del lago alle tempie, appena prima della tragedia (di Ofelia e di tutte le ibridazioni con l’io poetante cui può essere soggetta, come scritto). Il fascino che questa lirica suscita in me opera addirittura una divagazione esoterica: confortato dagli «steli» del terzo verso (il tradizionale strumento di divinazione), penso al trigramma Tui del I-Ching, che è insieme sereno e lago. E la cui linea spezzata in posizione superiore (vale a dire terza o sesta dell’esagramma 58) recita: Serenità che sopraggiunge. Sciagura! Ma anche Serenità seducente…

Questo è quello che può fare la buona poesia: attecchire al lettore, invogliarlo alla sortita interpretativa, correndo il rischio che sia anti-filologica, contra Auctorem, come più di una volta mi avviene.
La poesia di Silvia Patrizio ha saputo farlo con me, in questi passaggi e in altri che lascio a voi il piacere di scoprire.

[Silvia PATRIZIO, Smentire il bianco, introduz. A. De Alberti, postfaz. D. Ferrari, Osimo: Arcipelago Itaca, 2023, pp. 83, EAN 9791280139610, ebook n/d]