Damiano Sinfonico, Le spente lingue

Endre Rozsda, La tour de Babel (1958) CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Difficile aggiungere qualcosa alla godibile e approfondita prefazione che Antonio Lanza firma per le ventitré poesie di Le spente lingue, terza raccolta di Damiano Sinfonico, edita da Vydia. Lanza riflette sul continuum titolistico e stilistico del trittico, ovviamente non senza rimarcare le peculiarità di questo «terzo tempo»; illustra con esempi calzanti l’indissolubile e primordiale fusione, nell’Autore, tra vita e acquisizione culturale, che non è mai rigido sfoggio di erudizione bensì chiave interpretativa del vissuto, oppure speculazione (poetica, dickinsonianamente “obliqua”), sulle parole, il loro senso, le loro lingue, le penne che nei secoli le impiegarono. 

Classe 1987, Sinfonico si è fatto apprezzare già dal suo esordio (Storie, 2015; scheda SBN), contrassegnato da quel verso libero e piano che tuttora lo accompagna. Io sono arrivato al suo lavoro per vie laterali rispetto ai volumi di poesia. Per prima cosa, infatti, l’ho incontrato nella antologia di poetæ novi curata da Giulia Martini (scheda SBN; una sua scelta di poesie è qui introdotta da Valerio Nardoni); un biennio dopo, ho apprezzato la sua cura allo (straordinario) poema di José Carlos Rosales di cui mi sono occupato qui


Per il libro di oggi, incrociando le lingue del titolo con l’evocativo cognome dell’Autore, mi è venuto spontaneo aprire il bagaglio interculturale ed evocare i Quadri di Musorgskij: la loro tredicesima parte, infatti, s’intitola Cum mortuis in lingua mortua. A questo link l’orchestrazione sinfonica di Ravel dell’originale per pianoforte

Il dubbio che l’aggettivo “morta” non fosse sovrapponibile a “spente” era pressante: si tratta di un titolo, quello del libro, scientemente ironico o comunque ingannatore – anche solo per la portata della citazione: Leopardi ad Angelo Mai: «spente lingue» che incitano ad «atti illustri», tra cui ben possiamo annoverare l’accensione poetica che il loro studio evoca nel Poeta. Ma pure in Musorgskij è presente l’immagine di questo sviamento, come si legge nella didascalia autoriale: «Lo spirito creatore di Hartmann mi conduce ai teschi [delle catacombe romane di Parigi], mi chiama a loro, i teschi si illuminano leggermente». Come la lingua spenta conosce una brace, così la lingua morta si illumina, diventa una Lingualuce (citando la raccolta del 2017 precedente a questa; scheda SBN) per il tramite metonimico dei crani dei suoi antichi locutori.

Tutto conduce per metafora all’essenza del libro di Sinfonico, che è giustappunto una promenade tra parole ed episodi – principalmente della classicità greca e latina, ma non solo. Il Poeta riflette su ciò che incontra e – ecco la componente dinamica – lo vivifica; lo fa cogliendo slant truths tra accostamenti storico-evangelici (p. 23: la babele delle truppe Cartaginesi come rovesciamento della Pentecoste) e paradisi persiani da cui dedurre una gnome inclusiva di stretta contemporaneità (p. 42: «il paradiso è calpestato da stranieri»!); astraendo cromie dai lemmi in più poesie dell’ottima prima sezione; collegando il passato ad autori (Calvino, Bolaño) o icone del novecento (Lolita, Biancaneve).


L’incedere di Sinfonico tra filologia e storia ha, nel suo spirito, qualcosa della ammirazione attualizzante di Kavafis, ma anche (in minor dose) di Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, ossia delle argute passeggiate romane di Valentino Zeichen (cfr. ne Le spente lingue, a p. 39, l’episodio dei templi della pudicizia, tratto se non erro da Tito Livio, X:23). Tutto ciò sempre, come sottolinea Lanza, mediante uno stile immediatamente comunicativo, che rifugge gabbie metriche, scelte lessicali desuete o insistenze figurali. 

Il risultato è notevole in molti casi: ne scelgo giusto un paio, attendendo con fiducia il «quarto tempo» dell’Autore; del resto di quattro movimenti è canonicamente composta una sinfonia.



[Damiano SINFONICO, Le spente lingue, pref. A. Lanza, Montecassiano: Vydia Editore, 2024, pp. 55, EAN 9788897374749, ebook n/d]