Antonio Francesco Perozzi, Lo spettro visibile

La Grand Prismatic Spring nel Parco di Yellowstone. Image by Mike Goad from Pixabay

Pianta, animale, vortice, Dio

Prima o poi si marcisce al sole,
si compare in quattro cinque maniere
di malattia.

Quella che indossi è l’animale,
un sicuro esaurimento di risorse
fiutate prodotte assunte con l’uso
delle mani del pensiero spesso.

Poi c’è la vegetale, un demonio
che trattiene sopendo la linfa e un segreto,
cava spuma dai metalli e sta
tutta la vita da una parte.

Il resto è minerale o agita
i frammenti della realtà antartica,
non solo: vortici dietro il cristallo
nascosti chiamarli chema oppure Dio.

Ci chiediamo che fare. Una risposta
– diciamo un quesito – nasce in chi obbedisce
al disordine, guarda di traverso e ricorda.
Prima o poi si marcisce al sole e fuori
da questo accadere non importa.

*

Orgia

Si sparpagliano in agosto, le spore
che le felci licenziano a prescindere
se tu hai modo o no di vederle. Dentro le
pozze d’aria ci stagni tu e lo sperma
della sacra orgia vegetale – irradia
l’acero e sai che quelli in cielo sono
i suoi figli, i figli bicarpellari.

Continuamente il coito si consuma
nei silenzi a giro, nelle rivolte
planate dagli insetti in mezzo all’erba,
nella breccia del tifone che sparge
dappertutto un’esistenza a ricevere,
gli ovuli numerosi – viene al sole
per intercessione di api, la veccia,
persona entomofila, creatura
di un dio che senza scienza sapeva.

*

Orogenesi/finitudine

Lì prima della montagna c’era
chissà cosa. Arrampicarsi, quella volta,
ci è sembrato naturale, voglio dire:
la gamba ha un flessore, allora… il piano
è inclinato (verso giusto), fatto così
certo apposta per noi che… per
un’ascesi calcolata, un’espiazione-qualcosa, un
lungo discorso. Però prima niente
(niente montagna, dico: tabula) e ci è voluto
un pogrom dei continenti per produrre
il rilievo, abbassare il cielo, eccetera. E poi
quella storia – letta, non so – dei lichidi,
di fossili vari rinvenuti dove non è possibile
il mare. Oggi. Sarebbero superflue
prove ulteriori di una persona che sfiorisce
di pari passo col trionfo delle Alpi, ché
noi siamo organi e quelle azione
di rapina del sole e pozzanghera
delle ere. Il sentiero segnato ieri
dagli esperti è già una cresta sopra il livello
del male, suo proprio. Siamo scesi a valle, poi.
E capisci che è un fatto geologico che lì
non potremo mai tornare.

*

Impenetrabilità dei corpi

Avevi molte prove a sostegno
dell’efficacia di una sutura – dicevi
il sangue è fatto per guardarci dentro, e lo squarcio
aprirà il varco: tutto il varco.
Ma il sangue venuto all’aria è sangue
al massimo della sua natura – vedi
come il fuoco resta il fuoco, l’acqua l’acqua
e solo di rado assisti alla sublimazione?

«Il corpo fatto di materia come la pietra
non può penetrare in nessun modo nello spazio
occupato da un altro corpo: così la pietra
una volta che viene immersa a fondo non penetra
l’acqua ma solamente la sposta verso l’alto».

Ora segui bene i meccanismi
d’individuazione di questi ciottoli:
sotto i piedi e il peso si mantengono
quelli scuri, quelli chiari, quelli a macchie,
e mai sentirai le schegge farsi l’una nell’altra.
Allora decidi pure l’apertura della vena;
sappi che è impossibile per noi vedere
l’occasione in cui la pelle non è la pelle,
e anche sul tavolo i globuli tutti a uno
a uno si conservano.

***
Leggendo i versi piacevolmente complessi di Antonio Francesco Perozzi, all’interno di un libro a struttura poematica quale Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, nella collana diretta da Alessio Alessandrini, con introduzione di Pasquale Pietro Del Giudice), mi è sembrato di percorrere in unum lo spirito della polemica tra Thomas Love Peacock e Percy Bysshe Shelley; o meglio, la loro schermaglia, dato che i due erano grandi amici e, alla celebre “morte per acqua” (ipertesto eliotiano presente dentro il libro di Perozzi) del secondo, il primo ne fu esecutore testamentario e si prodigò per mediare sugli accordi familiari di rendita per Mary. In breve, nel 1820 Peacock (egli stesso poeta) scrisse un pamphlet sarcastico, The Four Ages of Poetry cui Shelley rispose con la Defence of Poetry (1821, ma pubblicata postuma).
Entrambi i testi possono essere letti qui. Limitandosi al primo, si tratta di un vero attacco alla poesia (soprattutto coeva) sotto una maschera storico-scientifica; benché tutto fuorché scientifico, è tuttavia difficile non riconoscere allo scritto una valenza predittiva di una tendenza storica per cui, con l’affinarsi e il diramarsi del sapere scientifico, la poesia viene sempre meno letta dal grande pubblico, a favore della saggistica (o forse di un terzo genere, la letteratura dell’engagement; questo ci porterebbe a una frase di George Gissing, e troppo in là). Soprattutto, i poeti (coi loro “giudici olimpici”, come Peacock chiama i critici, specie perfino peggiore, intenta a emettere “oracoli” di supremazia poetica), vengono giudicati superflui, irrisi, confinati in scaffali dietro gli ascensori. A meno che non diano sfogo a una poesia, in fondo, utilitaristica: “motivazionale” (Marra), “biscotto della fortuna” (Corsey), ad alta digeribilità, funzionale alle necessità biologiche (poesie d’amore memorizzabili e ripetibili a fine cenetta romantica) o comunque divertente (quest’ultima apprezzata solo fuori della cerchia degli addetti ai lavori: cfr. Houellebecq, Fuster, o, come case study, la fortuna poetica di Vito Riviello). Con sempre più scienza ci sarà sempre meno bisogno di poesia, chiude Peacock, anticipando uno splendido aforisma “di” Wittengstein (per ora “attribuito a”, perché non ne trovo la fonte), per cui (lo cito a braccio) la gente è convinta che i professori debbano insegnare e gli artisti divertire; che questi possano insegnare qualcosa, alla gente non passa proprio per l’anticamera del cervello.
La raffinatezza dell’impianto di Perozzi, a mio avviso, sta proprio nel rispondere a queste accuse (e al trend, ahimé, irreversibile) non chiudendosi a riccio nell’irrazionalismo, nella oscurità, in misticismi d’ogni sorta (ortodossie, eresie, lanci di monete, giochi di carte, allineamenti astrali, caratteri speciali), ma andando a giocare in trasferta e uscendone con un mirabolante 3-3, ossia con una raccolta che contamina la divulgazione naturalistica e fisica con procedimenti squisitamente poetici, quali la polisemia, la paronomasia, la parodia, la mimesi. Derivandone una imperscrutabilità sofoclea a più livelli che è in fondo matrice dell’unica gnome, quella esistenzialista. Come mirabilmente riesce a mettere in opera negli stessi versi, tra scorci sociali e vedute urbane o montane.
Così interpreto. Aggiungendo che la sensibilità di Perozzi è probabilmente acuita da una duplice scottatura: quella del suo essere docente di materie letterarie, indossando quindi la divisa del Humanism FC; quella di essere, come tutti noi, un uomo alle prese col virocene, nuova era (di cui ravviso tracce a p. 24) nel quale, va detto, tale squadra sportiva (rectius, la sua curva) non sta performando benissimo. Con tutti i contrasti intimi che dal suo e nostro livin’ on the edge possono derivare.

Lo spettro visibile è la messa in poesia e in discussione di una sorta di enciclopedia illuminista (o di un poema lucreziano, come coglie Del Giudice; e in effetti se ne ravvisa in certe parti lo stesso tono didattico, per es. nell’ultima poesia trascritta qui sopra). Libro sapienziale in cui, a due sezioni che trovo anzitutto foriere di riflessione filosofica profonda, segue la declinazione di tre grandi regni: animale (con un poemetto d’ispirazione darwiniana, Galápagos), vegetale, minerale. Per terminare con una sesta sezione, Chema, il cui titolo è una delle “mie” due parole-chiave del libro; anticipata in un verso della autentica poesia-sommario di p. 33, che ho trascritto in apertura.
Almeno nella mia lettura,”chema” è consonante con “chimica” però anche con “alchimia”; in più è arabo per “segreto”, dunque misterico e per traslato riferito al superno. Con ciò riunendo tre colori in una continenza, si direbbe col Sommo: la scienza naturale, dalla balena fino all’atomo; la deviazione dal suo metodo; il mistero dell’infinitamente grande, che, si legge in precedenza, “senza scienza sapeva”. Il tutto, appunto, forse fuso nella stessa continenza del deus sive Natura.
A Dante mi riporta anche l’altra parola-chiave, che è il titolo della prima sezione, Catabasi. L’introduzione di Del Giudice correttamente aggancia “catabasi” alla (cioraniana) caduta nel tempo; ma non ometterei la valenza primaria del termine, ossia a una discesa negli inferi. Dante, in Inf. II, ne nomina tre, non contando l’apparizione di Beatrice: Enea, S. Paolo, la propria – si può parlare quindi di mise en abyme. Ma la catabasi più nota è quella del poeta Orfeo, il cui canto, secondo la tradizione, commuoveva e piegava a sé animali, piante e perfino i sassi. Dunque, “Catabasi” come vita, ma forse come morte (a p. 27 le si allude per ellissi citando l’attacco della celebre villanella di Dylan Thomas). Discesa nel calviniano “inferno dei viventi”? Discesa del poeta Perozzi custode del poeta Thomas nell’arena scientista? Discesa nell’arengo dei propri dissidi? Forse, quindi, “catabasi normale” ma anche naturale come nascita della/nella natura, ma anche come declinazione poetica, orfica della stessa. Il poeta attraverserà infatti come Dante tutti i regni, li accompagnerà col proprio vissuto e la pienezza del proprio strumentario: si pensi, per apparente coincidenza di opposti, all’amalgama del homo metropolitanus e dell’inorganico nel poemetto La deriva dei continenti (pp. 71-72).

Avrete capito da voi che, se due sole parole possono suscitare questa mappazza di riflessioni, non posso che mollare la presa per non trasformare questa recensione in uno strumento di tortura. Il lettore si gioverà della già citata introduzione di Del Giudice, essa stessa impegnativa ma che ha, tra gli altri, il merito di individuare perfettamente il polisenso (cromatico / ectoplasmatico) di spettro su cui il titolo del libro gioca.
Segue mia rapida carrellata di alcune figure accennate sopra. Il polisenso tocca un altro punto nevralgico come giudizio (p. 24; cfr. anche il titolo Epochè a p. 32). Poco più avanti, a p. 26, si attacca con una splendida paronomasia: sole stendente. Per la parodia vorrei citare, tra i tanti, due esempi “vegetali”: Inconfutabilità del tarassaco (p. 58), in cui “ipotesi / tesi / dimostrazione” prendono uno svolgimento surreale che ricorda i sillogismi di Bellinvia; oppure Amnio (p. 64) in cui il ficus che ci riporta all’incipit della sesta elegia duinese parrebbe disporci a un andamento elegiaco e invece ci sorprende con un finale iconocolasta, stile Pink Floyd. La mimesi, infine, si ravvisa in cadenze versali come il ripetuto “a onde, a onde” a p. 90, imitativo delle risultanze della fisica.
Anche sui riferimenti poetici e filosofici, che avrò colto solo in minima parte, non posso che essere telegrafico. Volendo limitarsi all’elemento cromatico, che del resto è il succo del (di una valenza di) “spettro”: la narrazione della catabasi porta con sé “fumi viola” (pp. 22) che richiamano la nube purpurea di M. P. Shiel… ma anche Hendrix e i Genesis. Qui peraltro domina il nero che è sinonimo di indistinto anche argomentativo, nelle famose vacche notturne della polemica di Hegel con Schelling. Agli antipodi del volume, nella sezione del “chema oppure Dio”, troviamo la poesia Cromosistemi (p. 88) che è un palese omaggio al simbolismo e a i suoi più noti esempi poetici, ma non può non farmi andare al Prometeo di Skrjabin, visionario poema sinfonico che prevedeva l’utilizzo di un orgue de lumiere che proiettava in sala un colore per ogni tonalità (qui una esecuzione cromatica).

Quanto ai grandi padri, la poesia Satura di p. 37 non è tanto omaggio a Montale (rectius: alla tradizione latina che Montale stesso omaggia), quanto piuttosto etimologica saturazione dell’aria da parte dei canti d’insetto (rappresentato graficamente con uno strikethrough verticale grigio; e qui senza la soffiata dell’A. non ci sarei mai arrivato).
Va invece evidenziata la recezione di un procedere interpuntivo di Sanguineti, ossia il frequente e nevralgico uso dei due punti in chiusura (che quindi diventa apertura: “una risposta – diciamo un quesito”, per usare un passaggio forte di Perozzi).

Non resta che accantonare con un’alzata di spalle queste mie supercazzole e abbandonarsi ben più piacevolmente al vasto catalogo di Natura qui messo in versi, e alla difficile freschezza della sostanza poetica. Difficoltà in trend con alcuni esiti che abbiamo annotato qui (il già citato Bellinvia, Minardi, lo stesso Castiglione che li ha prefati entrambi) ma sempre con una cifra tutta sua. Poesia, in più, in grado di fotografare anche tematiche attuali quali povertà, migrazione, clima. E di distillare una gnome, una composita massima di vita, che troviamo bene espressa nella bella poesia in coda che non spoilero (Libeccio), ma anche nella risposta/quesito più volte citata qui. Nonché in altri frammenti disseminati nel libro, per esempio in quelle quattro aperture in cui ridonda (nell’io lirico, o nell’io corporeo, oppure in un ramoscello) quell’obbedisco posto enigmaticamente in esergo, che così svela la sua essenza.

[Antonio Francesco PEROZZI, Lo spettro visibile, introduz. P.P. Del Giudice, Osimo: Arcipelago Itaca Edizioni, 2022, pp. 99, EAN 9791280139313, ebook n/d]