Marco Simonelli, Bestiario

Gustave MOREAU, Quattro studi di serpenti, acquerello con tracce a matita, XIX sec. s.d., Parigi: Musée Moreau. (Wikimedia commons | public domain)

È uscito da poco, per i tipi Apuani di Industria & Letteratura, il Bestiario [scheda editore; scheda SBN non ancora presente] del Poeta fiorentino Marco Simonelli, che chi frequenta questi lidi conosce già, da ultimo per esserci soffermati insieme su Litania nervosa [recensione con annessa scheda SBN] – nonché, meno di recente e (me ne rammarico) troppo poco diffusamente, su altre prove quali Il pianto dell’aragosta [scheda SBN] o Firenze-Mare, ciclo a suo tempo inserito nell’undicesimo quaderno MyM di poesia contemporanea [scheda SBN]. 


La cifra di Simonelli sta da sempre nel ponderato e ponderoso – nel senso dunque della riflessione stilistica, ma anche del pondus, del peso esistenziale che sta a monte della scintilla poetica – contrasto di usare forme tradizionali della metrica e rima per descrivere attualissime storture, dal suo punto di osservazione “soffertamente privilegiato”, di persona  – in una società, diciamo così, diversamente libertaria – costantemente esposta e vulnerata in almeno tre aspetti del proprio essere: quelli della propria sessualità, psiche, scrittura. Il Poeta, nel narrarci il suo esser sé-nel-mondo, alla reazione della “benpensanza” non ha mai mancato di opporre una confessionalità aperta, vorrei dire “oltreoceanica”, senza infingimenti né omissis.
In questa cornice giunge un Bestiario che, c’informano le note di coda, è stato composto dal 2018 al 2023, a cavallo tra l’ultimo antropocene e il primo virocene, come amo dire. E si compone di un Carnaval-ou-Apocalypse des animaux (Saint-Saëns o Vangelis? A voi la scelta musicale, ma vedi anche il Berg più sotto) davvero monumentale, un catalogo fatto di ben novantacinque esemplari in altrettante poesie. 
Questa poco meno che centuria, oltretutto, era stata preceduta dalla prima sezione de Il pianto dell’aragosta (2015), intitolata appunto Bestiario: un ottetto di poesie dedicate alla sofferenza animale, prodotta dal genere umano o da esso osservata con una maggiore o minore indifferenza. Questo primo bestiario è profondamente diverso, non solo per dimensioni, ma anche per costruzione soggettiva e fissità tematica, da quello che andremo a esaminare qui di seguito; nondimeno ha qualcosa di preliminare, propedeutico: l’animale come chiave di ingresso dentro lo psychosocial umano, come bene aveva notato, già nella scelta del titolo del suo intervento, Francesca Matteoni su Nazione Indiana.


Scrivere un bestiario vuole dire collocare la propria scrittura in un vero e proprio genere letterario che affonda le sue radici, nell’Occidente, perlomeno nei primi secoli dopo Cristo. Curando per Adelphi e introducendo a quello che forse è il primo bestiarium ossia Il Fisiologo [scheda SBN] – testo gnostico, verosimilmente scritto ad Alessandria tra II e V secolo d.C. – Francesco Zambon condensa efficacemente in poche righe la bicipite ratio essendi del genere: 

Nell’antico simbolismo degli animali, e non solo entro i limiti dell’Occidente cristiano, coesistono due punti di vista diversi, in apparenza contraddittori: secondo il primo gli animali, creature inferiori all’uomo e a lui soggette, si delineano come una rappresentazione dei vizi e degli atti peccaminosi cui l’uomo deve rifuggire se vuole elevarsi dalla «bestialitade» alla dignità del suo rango; secondo l’altro, sono invece gli esseri più aderenti alla norma naturale che governa il cosmo, e divengono quindi per l’uomo, oltre che esempi di virtù e di obbedienza, specchi purissimi della Volontà divina. 

{Nota: Per quanto riguarda la componente dell’animale come rappresentazione di un vizio, vedi in chiave laica ed epoca novecentesca anche il Prolog dell’Erdgeist di Wedekind, poi messo in libretto e musica da Alban Berg nel famoso Hereinspaziert im die Menagerie che apre la Lulu. Qui «il domatore, con in mano scudiscio e pistola carica, invita il pubblico a visitare il suo serraglio: (…) Vengono quindi presentati i vari personaggi maschili della Doppeltragödie che, nel Prolog, hanno le sembianze di animali esotici: la tigre è Dr. Schön, l’orso è Dr. Goll, la scimmia è Alwa e il cammello è il pittore Schwarz; tra i rettili ci sono camaleonti come Rodrigo Quast, coccodrilli come il marchese Casti-Piani, draghi e salamandre come Schigolch. Davanti agli uomini, il domatore conduce in scena la protagonista Lulu in costume da Pierrot: lei è  il serpente, la seduzione e il peccato» (Elena Sciannamea, La tragedia di Lulu, sul sito di Laureto Rodoni)}


A queste linee tematiche, dal Fisiologo costantemente collegate alla esegesi delle similitudini zoologiche presenti nelle scritture, dobbiamo secondo me affiancare il genere della favola, retrocedendo dunque fino a Esopo e dunque al sesto secolo a.C. – questo implica considerare l’accostamento uomo-animale in chiave marcatamente gnomica, moralistica, rendendo una scena con animali parlanti esemplificativa dei temperamenti umani.
C’è poi una quarta variabile della nostra panoramica che è quella degli “animali fantastici”, creature mitologiche o immaginarie non presenti in Natura – spin-off che, attraverso i secoli, culmina e si enciclopedizza nella Zoologia fantastica di Borges


Con questo strumentario, nell’accostarmi al nuovo Bestiario poetico di Simonelli, l’ho accompagnato con due importanti opere poetiche: il Bestiaire, opus primum di Apollinaire (1911; su Project Gutenberg) e il Bestiario dei giorni di festa, opus ultimum dell’indimenticato Gabriele Galloni (2020; scheda SBN). Proprio Galloni ci è venuto ulteriormente in aiuto nell’indicare espressamente le proprie fonti di libera ispirazione non solo nella tradizione medievale e nello stesso Apollinaire, ma anche in Esopo – con ciò avvalorando la mia intuizione sincretista tra bestiario in senso stretto e favola. {nota: In una intervista, il Poeta Antonio Veneziani ha aggiunto alele fonti d’ispirazione di Gabriele, per testimonianza diretta, i racconti di Cortázar e Monterroso}


Il triplo gioco tra Apollinaire, Galloni e Simonelli mi ha permesso di apprezzare punti di contatto, ma soprattutto di procedere per distinzione e spingermi più a fondo nella indagine di Simonelli (essendo superfluo ribadire che sia l’opera di Apollinaire che quella di Galloni necessitano per importanza di una approfondita analisi ad hoc).
Tra i punti di contatto c’è sicuramente la scelta formale di una gabbia metrica e rimaria ben definita (ferme restando, in tutti, alcune deroghe): quartina baciata (AABB) per Apollinaire, terzina incatenata endecasillaba (ABA) per Galloni; infine, ottava non siciliana ma in doppia quartina alternata (ABABCDCD), ancora endecasillaba, per Simonelli. 
Abbiamo già detto di come la forma sia da sempre un elemento obbligato e codificato nella poesia del Nostro; possiamo dunque essere rapidi nell’indicare come, nella gabbia metrica prescelta, anche l’elemento figurale riceva la consueta attenzione, mediante allitterazioni, anafore, una splendida tmesi endoversale («in certi figli», in Pellicano) e altri procedimenti, padroneggiati qui come nelle raccolte procedenti.


Il carattere distintivo più forte dell’opera di Simonelli, ex se e rispetto alle altre due, però, è la secolarizzazione e laicizzazione del bestiario. Il poetico si sgancia totalmente dal religioso (solo due, forse ineludibili per la simbologia sacra dei due animali, riferimenti a «liturgico» e «cometa», rispettivamente in Pellicano e Cammello), dal mistico e dal fantastico a cui invece restano agganciati, pur con le loro tavolozze particolarissime e non convenzionali, Apollinaire e Galloni. Tanto da farmi pensare al titolo del Bestiario Simonelliano come a un provvido sviamento del lettore: qui, a mio avviso, ci troviamo piuttosto nella iurisdictio della Favola. L’opera è, mediante l’associazione di animale e temperamento umano,  esplicitamente – e senza bisogno di grandi scavi ermeneutici – agganciata al contesto della realtà, delle relazioni, della riflessione su scrittura ed esistenza

{A margine, ma non troppo: ai tempi de Il pianto dell’aragosta, si faceva notare come la narrazione di Simonelli mancasse di componente moralistica. Lo trovo meno giusto adesso di allora: sia perché vedremo appena sotto come non manchi qui qualche impulso di ribellione; sia perché bisogna intenderci: in ogni caso, “gnome” ha la stessa radice di gignosko, “io prendo conoscenza”: anche la osservazione di una totale assenza di morale (un superior stabat lupus fine a se stesso, per esempio, come amo gettare in famiglia!) è essa stessa gnome, ammaestramento di irredimibilità, per così dire.} 


Per avere un riscontro immediato della salda componente attuale del libro, si prendano – e veniamo a qualche poesia, finalmente – episodi di critica sociale (Api), mediatica (Serpenti), o le preoccupazioni legate alla scarsa etica (modaiola o alimentare: Visone, Tacchino) verso l’animale, nonché una certa rassegnazione climatica (Castoro). Tre soli esempi, quelli che ho stressato in grassetto: 


Dicevamo poi degli impulsi polemici: segnatamente, la deplorazione del vittimismo (Orso), quella “gramsciana” dell’indifferenza (Struzzo) o anche degli appelli alla pericolosità dell’auto isolamento (Paguro, Talpa).

Il domandarmi se queste sferzate possano essere etero- o autoriferite mi ha condotto a considerare il tema della individuazione del nucleo autobiografico lungo tutto il libro. Se in Apollinaire (Le poulpe, tra le altre poesie) e Galloni (Il camaleonte) i passaggi autoriferiti sono ben marcati, nel libro di Simonelli si ravvisa un continuo rimbalzo narrativo tra prima, seconda, terza persona. Ciò alcune volte è sicuramente determinato da esigenze di rima, ma ha comunque per effetto di mantenere una fertile incertezza di fondo sul target (riflessione universale o particolare? etero- o autoriferita?). Il che certamente stimola l’interpretazione del lettore e rende almeno una parte del Bestiario suscettibile di essere apprezzato come una smisurata confessione. Un’identificazione orizzontale, complessa, iperestesa

Ragionando oltre sul “destinatario” della poesia di Simonelli, ossia sul particolare o universale delle riflessioni, ci si può spingere a indagare, dato il continuum di quasi cento poesie che vengono proposte senza capitoli o sezioni, la sussistenza di una qualche aggregazione tematica dei contenuti. A questo proposito mi sembra di ravvisare piuttosto bene, per esempio, una parte incentrata sulla difficoltà a mantenere rapporti “nella bolla”, ma soprattutto, più avanti nel libro, una lunga e appassionante sequenza di otto poesie (da Polpo a Cinghiale) dedicate all’esperienza di scrittura e performance nel suo sviluppo diacronico, compreso tutto il portato emotivo e i riflessi sull’autostima che lo accompagnano e seguono. E che ha valenza, azzardo, sia autobiografica, sia di categoria. Mi sembra che Simonelli qui picchi oltremodo duro, per esempio sulla frustrazione che nasce dallo squilibrio tra il lavoro poetico, il suo mancato riconoscimento economico, il suo essenziale fraintendimento salva la parte estrinseca, “piumata”:


Infine, come sempre in Simonelli, va apprezzato un ulteriore tratto di qualificazione e nobiltà, che è quello meta- e intertestuale, il cum libellis loqui, quella connessione con la letteratura e la cultura che è frutto del quotidiano lavoro di poeta ma anche della sensibilità di traduttore e studioso. 
Vorrei soffermarmi su due notevoli trattamenti. Il primo, Falco, è un’espansione, un proseguimento (ripetendone inizialmente la struttura in anafora) e sviluppo di due dei correlativi oggettivi nella seconda stanza del capolavoro montaliano. Senza oltretutto, mi pare, sbilanciarsi ermeneuticamente sulla quæstio se il famoso «prodigio che schiude la divina indifferenza» sia conseguimento stoico effettivamente raggiunto o pura intuizione di qualcosa per noi irraggiungibile: 


Forse ancora più affascinante Albatro, che io vedo come una vera e propria palinodia d’après Baudelaire, ossia un tornare a monte della poesia e mettere in guardia l’albatro (il poeta) dal non planare e farsi catturare dai marinai (il mondo dell’agire? il pubblico? la bolla?):


Lungo tutto il ciclo ci sono altri riferimenti intertestuali, esplicitamente indicati (Dante, Dickinson, Donne) oppure no, come l’iscrizione nel sarcofago della Trinità di Masaccio, iscrizione che mi sembra echeggiare in Dodo; anche la chiusa di Gazza ladra [edit: poesia-acrostico per Annarita Zacchi, qui c’è voluta la glossa del Poeta per indirizzarmi] ha un virgolettato per cui, forse rivelando una mia lacuna verso qualcosa di più celebre, azzardo una parentela con I wandered lonely as a cloud di Wordsworth [edit2, sempre gratia Auctoris: il riferimento è più, in realtà, al Sogno dell’insegnante errante di Annarita, con una spruzzata di Dino Campana].
Altre poesie, in più, costituiscono lo sviluppo di un tema strettamente favolistico (Scorpione), proverbiale (la Capra), locutorio (il Granchio) o traslato (per sineddoche, l’Oca è la sua penna, ossia la scrittura). Una sola concessione alla zoologia fantastica: l’Unicorno, animale peraltro inserito anche in una simbologia sociale.


Per concludere: un’opera profondamente calata nel nostro tempo, frutto di uno scrittore dotato di lenti ustorie rivolte verso il mondo ma anche verso sé, sorretta da uno stile consapevole e catalizzata da un tessuto intertestuale in grado di suscitare riflessioni e accostamenti.


[Marco SIMONELLI, Bestiario, Massa: Industria & Letteratura, 2023, pp. 105, EAN 9791280987389, ebook n.d.]